Contini e Montale su Dino Campana

Gianfranco Contini: Campana poeta visivo  (1937)

“Visions de route, de campagne, de voyage à pied, d’alcools”: queste sono le Illuminations in un rigo, quali, più o meno esattamente, ha creduto di poterle riassumere Thibaudet, o è un sommario dei Canti orfici (un po’ meno alcoolici, un po’ meno afrodisiaci)? Già col raccogliere, sullo stesso piano, poesie e prose, lunghe solo fino all’esaurimento d’un tema, o d’una catena tematica, di passeggiata, e raccoglierle sotto quel titolo, Campana poneva se stesso, proprio negli anni della «scoperta» di Soffici, come un Rimbaud italiano; si faceva leggere nella chiave, nel ruolo d’un «voyant».
 Ma Campana non è un veggente o un visionario: è un visivo, che è quasi la cosa inversa.  «Un treno: si sgonfia arriva in silenzio, è fermo: la porpora del treno morde la notte»: quell’ansito sottinteso, quando giunge al silenzio, e a un «silenzio occhiuto di fuoco», si scioglie in una visione ardente. Si dice: un visivo, e s’intende qui un temperamento così esclusivo da assorbire e fondere in quella categoria d’impressioni ogni altra; com’è dello sparo di mezzogiorno calato nella «verde» campagna: «gli ultimi soffii di riflessi caldi e lontani nella grande chiarità abbagliante e uguale quando per l’arco della porta mi inoltrai nel verde e il cannone tonò mezzogiorno». E’ facile osservare come nel momento in cui la fantasia di Campana tocca la regione emiliana dai contorni netti e dalle tinte sicuramente campite, Bologna o Faenza, la sua potenza dl rappresentazione visuale si sfreni. Luogo ideale di Campana, che accoglie il lettore già dalla soglia dei Canti orfici: La Notte. 

Sono evidenti la sicurezza, la plasticità dell’esecutore; e ad eliminare ogni sospetto di decorazione, di trascrizione da un quadro, diremo: la sua «fede». S’aggiunga la riflessione sullo spettacolo, singolarmente viva in Campana e più o meno, a intermittenza, benefica; la legittima coscienza della platonicità, intemporalità delle cose che contempla («e dei tempo fu sospeso il corso»): ed ecco, attorno a questi oggetti isolati, massicci, subito formata un’aura di stupore, quasi di mistero. E per questa via che il visivo Campana, finora nel giusto, giunge a credersi un veggente.
Lo sbaglio di Campana consiste, a questo punto, nel caricare d’oscurità indecifrabile il viaggio, ricavarne come egli dice «figurazioni»: allora sulla trama, nettamente spaziale in lui, dell’evocazione poetica prende il sopravvento, tendenzialmente temporale, la trama della lussuria, trasfigurata in inutili simboli. 
Frattanto, per colpa di tanti errori, non dimentichiamo quello che è il momento poetico di Campana, il punto di fusione della «sosta», descritta con gusto realistico fino minuziose («prestavo allora il mio enigma alle sartine levigate e flessuose...»), e dello sfrenarsi nobile delle Alpi. Al di là di questa stessa dialettica stilistica, il torrente che racconta «oscuramente la storia», puramente geografica («Riudivo il torrente ancora lontano: crosciava bagnando antiche città desolate, lunghe vie silenziose, deserte come dopo un saccheggio») rappresenta bene la situazione tipica di Campana. 
C’e un particolare che sembrerebbe stare a prova del carattere visionario di Campana, ed e la brevità delle sue notazioni. Ma essa consegue a quella particolare intensità e concentrazione dello spettacolo; il quale è una effettiva rievocazione di viaggiatore («Rivedo ancora Parigi, Place d’Italie, le baracche, i carrozzoni, i magri cavalieri dell’irreale, dal viso essiccato, dagli occhi perforanti di nostalgie feroci, tutta la grande piazza ardente di un concerto infernale stridente e irritante»), tutt’al contrario di quanto accade in Rimbaud, nelle Illuminations prosastiche soprattutto (di tanto inferiori per organicità strutturale a Une Saison en enfer), dov’è un’aria non confondibile di Nord francese, tra il «faubourg» dei pittori candidi c l’arcadia di Watteau, che il poeta si preoccupa di smentire a ogni tratto - (e qui e la sua ingenuità giovanile): egli vuole spaesarsi, spatriarsi. Da un tale aspetto, Campana e indubbiamente più maturo. I ricordi di viaggio sono altrettante componenti del suo «panorama scheletrico del mondo»: formula ricorrente, che rende ragione di quella visione asciutta ed estremamente chiara.
In mezzo, le evidenti visioni strappate dai viaggi: di Firenze, Genova, Rio, Montevideo.

 


Eugenio Montale: Sulla poesia di Campana

Da: L'Italia che scrive, 1942


 [...] Campana poeta visivo o poeta veggente"? L'impressione che ci ha lasciato una recente rilettura dei Canti Orfici — voglio anticiparla fin d'ora — è che le corna di questo dilemma siano tutt'altro che inconciliabili: se è vero che anche i critici di Campana meno inclini a misticismo e irrazio­nalismo gli concedono « illuminazioni spinte fino al mito » (Gargiulo) e negano che per lui si possa parlare di semplice impressionismo (Contini); mentre d'altro lato il migliore interprete dell' « infrenabile notte » del poeta (Carlo Bo) si è espresso in frasi e immagini (« una poesia che non ha avuto il tempo dei fiori o l'ha avuto con il soccorso anticipato e crudele dei frut­ti ») che lasciano trasparire almeno un limite di questa poesia. L'osservazione, facile a farsi anche se non fosse confermata da ricordi personali, che Campana fu presto tenuto d'occhio dagl'intendenti, non deve far pensare che gli intonarumori del momento (futuristi, lacerbiani, ecc.) ab­biano prestato molta attenzione all'autore dei Canti Orfici. Lo tennero per uno dei loro, forse, ma a debita distanza; e Campana stesso non li ricambiò di grande simpatia.
Comunque il poeta non spuntò come un fungo in un ambiente impreparato a riceverlo. Una delle curiosità degli inediti (una sessantina di liriche, oltre ad appunti vari, aforismi, pensieri, ecc.) è anzi che essi permettono di saldare meglio Campana al suo tempo e di far luce sul noviziato futurista di questo poeta. Noviziato sul quale permanevano espliciti e impliciti dubbi. Oggi la parte più scadente degli Inediti, e particolarmente dei 44 inediti del quaderno trovato, assicura che il poeta nacque e si formò, tutt'altro che precocemente, in quel clima arroventato di ismi.. Ma è impossibile saperlo con certezza. I versi più definiti dei Canti Or­fici, i soli che restino nella memoria, ci sono più o meno tutti; o c'è il loro germe musicale. Campana verosimilmente li introdusse nei Canti Orfici senza più consultare il quaderno. E così riflettendo al fatto che quando gli smarrirono il manoscritto Campana lo rifece con grande rapi­dità, è possibile arguire che rapida dovette essere la ricomposizione-tra­scrizione di quelle parti del quaderno che vi entrarono: rapida e seguita, se non da un ripudio, certo da scontento e disinteresse. Certo il quaderno fu messo a dormire un sonno che Campana credette definitivo. E quan­to alla prose ch'esso conteneva, fino a che punto il manoscritto rifatto ha seguito il vecchio? Possiamo arguire che anche qui Campana abbia lavo­rato ex novo e rapidamente, se è vero che esse rappresentano la parte più matura, anche stilisticamente, del libro. Dei versi antecedenti, rappresen­tati in tutto o in parte dal quaderno, Campana non salvò che una piccola parte, senza dubbio la migliore, dimostrandosi buon autocritico. In ogni modo è certo che, a memoria o no, Campana ritagliò la parte verseggiata dei Canti Orfici dal suo quaderno. Ritagliò sfrondando e alleggerendo.
L'idea di una poesia « europea musicale colorita » era stata in Cam­pana, oltre che istinto, un fatto di cultura; ma certo era stata accompa­gnata o preceduta, in lui, da una pratica ancora un po' inerte e passiva dei nuovi ismi trovati in aria. Anche il futurismo ufficiale aveva preteso, come già i novatori di fine secolo, di « rompere i vetri », di rinnovare l'aria. Campana s'era però scelto maestri più fini di quelli seguiti dai suoi provvisori iniziatori. Ripudiò d'istinto la parte più meccanica, più elencativa del liberismo di moda; andò, si può affermarlo anche con sicurezza di fatto, verso le sorgenti più certe di quel movimento, da Whitman a Rimbaud. Riportò per conto suo, nell'arte e nella vita, un fatto di stile a un fatto di coscienza e fu consapevole di rappresentare, nel suo tempo e nel suo ambiente, una voce nuova, diversa. Guardiamoci, tuttavia, dall'attribuire troppa coscienza riflessa a colui che fu, per le tragiche e pre­carie condizioni della sua vita, il poeta di una breve, forse brevissima stagione. Uno dei fascini della poesia di Campana è dato certo dall'oscurità, tutt'altro che intenzionale, che la malattia del poeta protesse e favorì. È una poesia — condividiamo il parere di Solmi — « che si scioglie a stento dall'atmosfera febbrile che ne costituisce il fondo ».
È una poesia in fuga, la sua, che si disfà sem­pre sul punto di concludere: imprevedibili, a dir poco, ne sarebbero stati gli sviluppi.

Urgenza di contenuti balenati nell'infrenabile notte; energica volontà e voluttà di nomade, di tramp, che conosceva Whitman e Rimbaud ed esperimentava la sua poesia come un atto indifferenziato di natura estetica e insieme volontaristica; song of himself; saison en enfer; paroliberismo e autobiografismo di marca lacerbiana e vociana; diffusi echi neo-classici, echi non solo carducciani, ma dannunziani che per conto nostro non vorremmo disgiungere dalla natura più personale e più oscura del messaggio barbaro di Campana, da quell'idea di una poesia orfica che non si limita al titolo del libro e che non si può ritenere estranea alla sua convinzione di tardo rapsodo germanico, attratto e abbagliato dalle ardenti luci del Mediterra­neo; tutto ciò appare a lampi nelle brevi pagine dei Canti Orfici. Fermiamoci un istante su quell'orfismo che il suo libro non tenta certo di definire. Coincide col sorgere in Italia di una pittura metafisica (Carrà, De Chirico) di cui Campana non poté ignorare la presenza e le intenzioni. Come il primo De Chirico anche Campana è un suggestivo evocatore delle vecchie città italiane: Bologna, Faenza, Firenze, Genova, lam­peggiano nelle sue poesie e gli suggeriscono alcuni dei suoi momenti più alti. Sarà forse quest'aspetto barbaro, e se vi piace antico, un'altra spia del suo latente carduccianesimo, del resto meglio visibile in alcune aperture di distico? È possibile; ma a noi sembra che l'orfismo di Campana e la sua illusione di essere un tardo poeta germanicaus sperduto nei paesi del sud coincidano nelle intenzioni e persino nei risultati.
Seguono spunti vari, anche preziosi per l'interpretazione della sua poesia: « Scorrere sopra la vita, questo sarebbe necessario, questa è l'unica arte possibile », ed altri accenni a Nietzsche e a Wagner. Ma è poco, troppo poco perché si possa cercarvi qualcosa come un « pensiero » di Campana. Quanto il poeta sapesse il tedesco non ci è noto con esat­tezza: certo il tedesco non poteva mancare tra quelle cinque lingue di cui egli, scrivendo a Novaro, si dichiarò buon conoscitore. Poco o nulla seppe probabilmente di George, e Rilke orfico è posteriore al suo libro; della Grecia di Hölderlin ebbe forse qualche notizia, di Nietzsche una cono­scenza sicura e spesso ossessiva. In ogni modo è evidente che quel senso di evasione,  « quell'indagine della dimensione, quella tensione spaziale » (Con­tini) non si attuò in lui — a tratti, è vero — senza il sussidio di una lingua che gareggia col tedesco in fatto di capacità astrattive, di una lingua sfocata, smussata agli angoli, capace di aloni e di iridescenze, di una parola « estre­mamente gonfia e mai definita » (Bo), la sola che potesse rendere la Stimmung di La Chimera, di La Notte e di molti altri frammenti — a volte anche, nel quaderno, in frammenti di frammenti, d'intonazione più o meno futurista.
Poeta germanicus, dunque? E perché no, se restiamo nella meta­fora e ammettiamo che Campana si scavò d'istinto, nel nostro linguaggio, un linguaggio tutto suo. Abbiamo scritto si scavò, ma in realtà non è l'idea di uno scavo quella che meglio si adatta al caso di Campana. Penseremmo piuttosto a veri e propri salti d'aria, a rapide immersioni in un'atmosfera di­versa, inusitata allo stesso poeta. 

Dal ponte sopra la città odo le ritmiche cadenze mediterranee. I colli mi appaiono spogli colle loro torri a traverso le sbarre verdi ma laggiù le farfalle innumerevoli della luce riempiono il paesaggio di una immobilità di gioia ine­sauribile. Le grandi case rosee tra i meandri verdi continuano a illudere il cre­puscolo. Sulla piazza acciottolata rimbalza un ritmico strido: un fanciullo a sbal­zi che fugge melodiosamente. Un chiarore in fondo al deserto della piazza sale tortuoso dal mare dove vicoli verdi di muffa calano in tranelli d'ombra: in mez­zo alla piazza, mozza la testa guarda senz'occhi sopra la cupoletta. Una donna bianca appare a una finestra aperta. È la notte mediterranea. 

C'è forse un po' di De Chirico: ma dissolto in un'ebbrezza zaratustriana. Non è un esempio estremo, si badi, ma uno di quelli che meno perdono ad essere isolati dal contesto.
Eppure noi non sapremmo offrire altra chiave ai nuovi lettori dei Canti Orfici se non questa raccoman­dazione di cogliere allo stato nascente la musica del poeta, viva un po' do­vunque e soprattutto in quegli abbozzi di mito — il ritorno, la notte-me­diterranea, la figura di Michelangelo, gli sfondi del « divino primitivo, Leonardo » — dove Campana si arresta alle soglie di una porta che non s'apre, o talora s'apre per lui solo.
Se non ripugnasse ridurre a brandelli un'anima che tese a un'espressione totale e che pur ci ha la­sciato un'immagine cosi frammentaria di se stessa, noi ci sentiremmo di ridurre l'opera già così breve di Campana, a poche pagine incorruttibili per le quali non crediamo si possa negare al poeta di Marradi una voce ben diversa da quelle del suo tempo. Un'antologia che compren­derebbe, per esempio, La notte, La Verna, Firenze, Scirocco, Piazza Sarzano, Faenza, qualche notturno, qualche pezzo delle poesie già citate, e pochi altri frammenti e pensieri. È poco? È poesia-prosa, cioè di tono basso? Neghiamo il cioè, non crediamo necessaria e sicura l'illazione. « Passato come una cometa » (Cecchi), Dino Campana non ha esercitato, forse, una « influenza incalcolabile », ma la traccia del suo passaggio è tutt'altro che insabbiata. In lui nulla fu di mediocre; i suoi stessi errori non li chiameremo errori ma inevitabili urti contro gli spigoli che lo atte­sero ad ogni passo. Gli urti di un cieco, se vogliamo. I veggenti, anche se per avventura visivi come il nostro Campana, sono irrimediabilmente, su questa terra, gli esseri più sprovveduti, più ciechi.

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