Anna Maria Ortese, La città involontaria

Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli
Da "La città involontaria"

Una delle cose da vedere a Napoli, dopo le visite regolamentari agli Scavi, alla Zolfatara, e, ove ne rimanga tempo, al Cratere, è il III e IV Granili, nella zona costiera che lega il porto ai primi sobborghi vesuviani. E’ un edificio della lunghezza di circa trecento metri, largo da quindici a venti, alto molto di più. L’aspetto,. per chi lo scorga improvvisamente, scendendo da uno dei piccoli tram adibiti soprattutto alle corse operaie, è quello di una collina o una calva montagna, invasa dalle termiti, che la percorrono senza alcun rumore né segno che denunci uno scopo particolare. Anticamente, le mura erano di un rosso cupo, che ancora emerge, qua e là, fra vaste macchie di giallo e ditate di un equivoco verde. Ho potuto contare centosettantaquattro aperture sulla sola facciata, di ampiezza e altezza inaudite per un gusto moderno, e la più parte sbarrate, alcuni terrazzini, e, sul dietro dell’edificio, otto tubi di fognatura, che, sistemati al terzo piano, lasciano scorrere le loro lente acque lungo la silenziosa muraglia. I piani sono tre, più un terraneo, nascosto per metà nel suolo e difeso da un fossato, e comprendono trecentoquarantotto stanze tutte ugualmente alte e grandi, distribuite con una regolarità perfetta a destra e a sinistra di quattro corridoi, uno per piano, la cui misura complessiva è di un chilometro e duecento metri.
Ogni corridoio è illuminato da non oltre ventotto lampade, della forza di cinque candele ciascuna. La larghezza di ogni corridoio va da sette a otto metri, la parola corridoio vale quindi a designare, più che altro, quattro strade di una qualunque zona cittadina, sopraelevate come i piani di un autobus, e prive affatto di cielo Soprattutto per il pianoterra e i due piani superiori, la luce del sole è rappresentata da quelle ventotto lampade elettriche, che qui brillano debolmente sia la notte che il giorno.
Sui due lati di ciascun corridoio si aprono ottantasei porte di abitazioni private, quarantatré a destra, quarantatré a sinistra, più quella di un gabinetto, contraddistinte da una serie di numeri che vanno da uno a trecentoquarantotto. In ognuno di questi locali sono raccolte da una a cinque famiglie, con una media di tre famiglie per vano. Il numero complessivo degli abitanti della Casa è di tremila persone, divise in cinquecentosettanta famiglie, con una media di sei persone per famiglia. Quando tre, quattro o cinque famiglie convivono nello stesso locale, si raggiunge una densità di venticinque o trenta abitanti per vano.
Apposite commissioni potrebbero recarvisi a contare il numero dei vivi e dei morti, e di quelli come di questi esaminare le ragioni che li condussero o li tennero o li portarono via di qui. Perché il III e IV Granili non è solo ciò che si può chiamare una temporanea sistemazione di senzatetto, ma piuttosto la dimostrazione, in termini clinici e giuridici, della caduta di una razza. Secondo la più discreta delle deduzioni, solo una compagine umana profondamente malata potrebbe tollerare, come Napoli tollera, senza turbarsi, la putrefazione di un suo membro, ché questo, e non altro, è il segno sotto il quale vive e germina l’istituzione dei Granili. Cercare a Napoli una Napoli infima, dopo aver visitato la caserma borbonica, non viene più in mente a nessuno. Qui, i barometri non segnano più nessun grado, le bussole impazziscono. Gli uomini che vi vengono incontro non possono farvi nessun male: larve di una vita in cui esistettero il vento e il sole, di questi beni non serbano quasi ricordo. Strisciano o si arrampicano o vacillano, ecco il loro modo di muoversi. Parlano molto poco, non sono più napoletani, né nessun’altra cosa.
Una commissione di sacerdoti e studiosi americani, che oltrepassò arditamente, giorni or sono, la soglia di questa malinconica Casa, tornò presto indietro, con discorsi e sguardi incoerenti.
Avevo segnato su una scatoletta di fiammiferi, che dopo mi servì per altre ragioni, il nome della signora Antonia Lo Savio. Con nessun altro indirizzo, una mattina di questo novembre, varcai la soglia del grande ingresso che si apre sul lato destro del III e IV Granili. Quando la portinaia, seduta dietro una grande pentola nera in cui bollivano dei vestiti, dopo avermi esaminata freddamente, mi disse che non sapeva chi fosse questa Lo Savio, e andassi a domandare al primo piano, provai la tentazione di rimandare tutto a un altro giorno. Era una tentazione violenta come una nausea di fronte a un'operazione chirurgica. Dietro di me, sullo spiazzo che precede l'edificio, giuocavano una decina di ragazzi, senza quasi parlare, lanciandosi delle pietre; alcuni, vedendomi, avevano smesso di giocare, in silenzio si accostavano. Di fronte, vedevo il corridoio del pianoterra, per una lunghezza, come accennai, di trecento metri, ma che in quell'attimo sembrò incalcolabile. Nel centro e verso la fine di questo condotto, si muovevano senza alcuna precisione, come molecole in un raggio, delle ombre; brillava qualche piccolo fuoco; veniva, da dietro una di quelle porte, una ostinata, rauca nenia. Ventate di un odore acre, fatto soprattutto di latrina, giungevano continuamente fin sulla soglia, mescolate a quello più cupo dell'umidità. Pareva impossibile potersi inoltrare di dieci metri in quel tunnel, senza svenire. Fatti pochi passi, vidi cadere a destra un po' di luce, e scopersi una di quelle scale dai gradini larghissimi e non più alti di un dito, che un tempo avevano permesso ai cavalli, istallati al pianoterra, di raggiungere coi loro carichi il primo piano. Forse faceva meno freddo di quanto avessi temuto, ma l'oscurità era quasi assoluta. Rischia d'inciampare, e accessi un cerino, ma subito lo spensi: ecco alcune, piccolissime lampade, nel cui interno tremano e si torcono continuamente dei fili rossastri: a questo barlume, si delineava il corridoio del primo piano.
Qualcuno, verso il fondo di questa strada, stava abbrustolendo del caffè perché, all'odore di orina e di umidità, si mescolava ora anche quello più grado dei chicchi bruciati. Il fumo, però, faceva lacrimare gli occhi, e metteva intorno alle lampade, minuscole come spilli, un alone più roseo. Passai davanti, non vedendoli che quando mi furono vicini, a un gruppo di ragazzi che giuocavano a girotondo, tenendosi per le mani molto distante, e rovesciando indietro le teste arruffate, con una voluttà più forte di quella di un giuoco normale. Sfiorai ciocche di capelli duri, come incollati, e alcune braccia dalla carne fredda. Vidi finalmente la donna che abbrustoliva il caffè, seduta sulla soglia di casa sua. Nell'interno c'era un disordine e un chiarore selvaggio, dato da un imprevedibile raggio di sole, che si buttava dalla finestra (aperta sul dietro dell'edificio), attraverso vasi e cenci, sulle materasse. C'era anche del sangue. La donna, nera e asciutta, seduta su una sedia completamente spagliata, girava di continua, con una specie di orgoglio, il manico di legno del cilindro di ferro, dal cui portellino una nuvola di fumo saliva a isolarle la testa. In piedi vicino a lei, altre tre o quattro ragazze, in vesti nere, aperte sul petto bianco, seguivano con gli occhi seri e accesi la danza dei chicchi nel cilindro. Vedendomi, si scostarono, e la donna smise di far saltare il cilindro sul fuoco, che per un momento cessò quasi d'illuminare. Il nome di Antonia Lo Savio le lasciò silenziose. Mi accorsi dopo, durante le successive visite, che questo silenzio, piuttosto che indicare perplessità o indecisione, manifestava curiosità e un sentimento più sinistro, anche se debole: il desiderio di coinvolgere per un attimo,nella oscurità in cui dominavano, lo straniero di cui era evidente l'abitudine alla luce. Per lo meno, molte di queste persone hanno giuocato, durante le mie visite, a non rispondere o a indirizzarmi verso luoghi da cui non avrei potuto facilmente risalire. Stavo per proseguire la mia strada, sforzandomi di apparire tranquilla, quando una delle ragazze, volgendosi verso una porta, disse lentamente, senza guardarmi: "Vedite lloco". Una donnetta tutta gonfia, come un uccello moribondo, coi neri capelli spioventi sulla gobba e un viso color limone, dominato da un grande naso a punta che cadeva sul labbro leporino, stava pettinandosi davanti a un frammento di specchio, e tra i denti stringeva qualche forcina. Sorrise, vedendomi, e disse “Nu minuto”. La mia felicità nel vedere un sorriso simile  m’indusse a riflettere qualche attimo se fosse o no sconveniente rivolgerle il titolo di signora. Non era che un enorme pidocchio, ma quale grazia e bontà animavano gli occhi suoi piccolissimi. “Signora” dissi accostandomi a lei rapidamente, e le feci il nome del dottor De Luca, direttore dell’ambulatorio per i poveri dei Granili, che mi aveva mandata da lei perché mi accompagnasse un po’ in giro. “Nu minuto… abbiate compiacenza” ripetè continuando a sorridere e a pettinarsi, e mi accorsi allora che la sua voce , in fondo al rantolo del catarro, era dolce. Credo fosse questa sensazione, inconsciamente avvertita, a restituirmi un po’ di coraggio. Mi addossai alla porta, aspettando che quella creatura finisse di acconciarsi, e intanto sbirciavo il gruppo delle caffettiere. Il fumo si era diradato, e in quell’improvviso grigiore esse apparivano ancora più pallide. Mormorarono qualche parola, in cui risuonoò il nome della o Savio, con un riso silenzioso, colmo di disprezzo, e mi turbavano quelle che pensavo essere le ragioni di tanta ostilità. La Lo Savio, sulla soglia di casa sua, finiva di pettinarsi, con un certo indugio di ragazza, come se fosse maggio, ed ella stessa pensando al suo amore, quando si accostò, con le mani in tasca, i capelli diritti in testa, un’aria spavalda e tetra, un bambino. Procedè, con un’esitazione impercettibile, verso il centro della stanza, e andò a sedersi sulle tavole del letto (non vidi mai, in questa grande Casa, un letto rifatto, solo materasse distese o ammonticchiate, al più con una coperta gettata sopra). Una volta seduto, e dondolando le gambe sottili, cominciò a canticchiare: “E ce steva ‘na vota ‘na reggina che teneva i capille anella anella” con una voce afona.
S’interruppe a un tratto per rivolgersi alla Lo Savio: “Signò, tenèsseve nu pucurillo ‘e pane?” e da questo capii che non era suo parente. Mentre la Lo Savio, con in bocca l’ultima forcina, gli rispondeva qualcosa, mi accostai al bambino, e gli domandai come si chiamasse. Rispose: “Luigino". Gli feci altre domande e non rispose più nulla. Gli era apparso su tutta la faccia un sorriso ambiguo, sprezzante, che contrastava bizzarramente con l’espressione assente e morta degli occhi. Sentendomi imbarazzata, come se il suo sorriso, misteriosamente maturo, non già più di bambino, ma di uomo, e di uomo avvezzo a trattare solo con prostitute, contenesse un giudizio, una valutazione atroce della mia stessa persona, mi allontanai di qualche pasos. Ed ecco la Lo Savio accostarsi col pane, che il ragazzo cominciò a mangiare. “Questo povero figlio,” diceva adesso la Lo Savio “non tiene padre né madre. Sta qui dal ’46, con una mia cugina, alla porta accanto. Per giunta, è pure cecato”. 
Il ragazzo rimase un attimo in silenzio, e in quell'attimo le mani che stringevano il pane gli scivolarono fino alle ginocchia. In qualche modo mi osservava. "Nu pucurillo ce veco; mo' veco 'n'ombra che acala a' capa. Ve ne jate, signò?"
Risposi di sì, dopo qualche momento, e mi avviai con la Lo Savio. 
"V'accumpagnasse, ma aspetto 'n amico" proseguì con una nuova intonazione, dove la spavalderia della menzogna, necessaria a salvarlo, moriva in una specie di stupefatta pietà, d'intenerito calore. Riadagiò la testa,che per un momento aveva sollevata, sul pagliericcio, e riprese a cantare: "E  'na barca arrivaie alla marina" con un filo di voce, una fissità che dovevano avere lo scopo, ogni mattina di persuaderlo nuovamente al sonno. 
Uscendo con la mia guida, cercavo nella mia mente confusa le ragioni con le quali avrei potuto abbandonare subito quel luogo, e raggiungere il piazzale, la fermata del primo autobus o tram. Mi pareva che, appena uscita, avrei gridato, e sarei corsa ad abbracciare le prime persone che avessi incontrate. Guardavo la Lo Savio, e ne ritraevo continuamente gli occhi. Non sapevo, d'altra parte, dove posarli. Alla luce delle poche lampade, la vedevo meglio: regina della casa dei morti, schiacciata, nella figura, rigonfia, orrenda, parto, a sua volta, di creature profondamente tarate, rimaneva però, in lei, qualcosa di regale: la sicurezza con cui si muoveva e parlava, e un'altra cosa, anche, un lampo vivissimo in fondo agli occhietti di topo, in cui era possibile ravvisare, insieme alla coscienza del male e della sua estensione, certo tutto umano piacere di teenrgli fronte. Dietro quella deplorevole fronte esistevano delle speranze. 
[...]

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