10/12/10

Confronto tra Leopardi e Montale

Leggi l'articolo di Franca Spinelli:  "Leopardi e Montale"

e quello di Loredana Castori "Gli occhi e lo sguardo in Leopardi e Montale"

Un’eredità difficile:voci del Novecento a confronto con Giacomo Leopardi sui falsi miti dell’uomo (liceo Fermi)


Che Giacomo Leopardi sia stato considerato fin dall’Ottocento uno dei capisaldi per la costruzione dell’identità nazionale italiana è fuori discussione: il poeta filosofo è stato incluso in tutti i canoni di letteratura italiana elaborati sin d’allora, così come spesso ha trovato posto – certo meno di quanto meriterebbe – nella storia del pensiero. Come Foscolo e Manzoni, il suo spessore filosofico è profondo, la sua lingua poetica giunge a vette non dimenticabili, l’acume spesso aspro della sua prosa è ancora capace di snudare con veemenza le molte mistificazioni della vita umana.

Non solo tutti i suoi temi sono molto moderni e parlano con vigore anche alle generazioni attuali, ma, soprattutto, ha colto alle origini dell’età moderna elementi il cui sviluppo s’intende pienamente solo nel secondo Ottocento e soprattutto nel Novecento.

È questo il cammino che abbiamo scelto, con la 5 L-C, di seguire per la nostra ricerca, chiedendoci chi fossero, nel difficile XX secolo, gli “eredi” di quel suo pensiero scomodo, di quella sua lucidità senza ritorni, di quella sua capacità di guardare a fondo il presente e i “costumi degli Italiani” con l’acume di un antropologo e di coglierne i limiti, l’effimero e le contraddizioni, di demistificare i falsi miti o i luoghi comuni del progresso e della felicità collettiva.

Siamo generati nel mondo per la morte, dice Leopardi con parole che paiono anticipare Heidegger: assumiamocene la consapevolezza, assumiamocene la responsabilità. Non vendiamo illusioni facili.

Dopo l’entusiasmo positivista, il Novecento apre un pensiero della crisi che, nella letteratura italiana, si esprime in  alcune figure emblematiche: Luigi Pirandello, durissimo critico della civiltà delle macchine, della società che ci costringe a maschere; Italo Svevo, la cui visione apocalittica è forse quella che di più, fra tutte, nega una qualsiasi possibilità di riscatto; Eugenio Montale, che dalla speranza in un “varco”, in una possibilità di salvezza offerta dalla civiltà contro la barbarie totalitaria (tra le Occasioni e la Bufera e altro) approda ad uno sguardo sarcastico e desolato su un mondo moderno massificato e informe nelle rime di Satura; lo stesso sguardo che spinge Pier Paolo Pasolini a scagliarsi con accanita indignazione contro l’omologazione culturale che, dopo gli States, invade l’Europa e l’Italia del boom.

Ma il lascito di Leopardi non è solo lo svelamento della crisi: il suo messaggio di resistenza fiera parla con la voce di Elio Vittorini, che dalle pagine magistrali del “Politecnico” incita a non arrendersi, a cercare una cultura non consolatoria ma combattiva, capace di agire nel mondo; una sorta di neoumanesimo che permea anche le pagine critiche di Italo Calvino, che studia quali forze e risorse, interiori e collettive, opporre al disfacimento del mondo contemporaneo, all’inferno in cui rischiamo di naufragare, al labirinto cui lanciamo una sfida.

Ecco gli “eredi” di Leopardi: coloro che, tra gli altri, hanno raccolto la sua parola tesa a costruire un’identità italiana non nel senso retorico o più ovvio del termine, bensì come costruzione di una coscienza critica fondata su una cultura profonda e condivisa, su una società “stretta” capace di elaborarla e di porla a fondamento di valori autentici, su una consapevolezza che la condizione umana impone la presa d’atto dell’infelicità e quindi il gesto, eroico, di accettare e opporre valori e solidarietà. In una parola, quella dignità umana di cui il grande recanatese denunciava con parole ora accorate ora graffianti la mancanza desolata nel nostro paese.

Rossella D’Alfonso (docente di Lettere Liceo Fermi)
Leopardi intellettuale “corsaro”

Uno degli apporti cruciali di Giacomo Leopardi all’identità nazionale è la costruzione di uno spirito critico lucido e disincantato, che egli elabora nel corso di tutte le sue opere.
  Nella Palinodia al marchese Gino Capponi, riutilizzando lo stile già usato nell’operetta Dialogo di Tristano e di un amico, Leopardi finge di accettare i costumi e le linee di pensiero della società del suo tempo per criticare dall’interno, servendosi dell’ironia, quei costumi e quei pensieri. Egli si accanisce contro una serie di falsi miti della società del suo tempo di origine illuminista, a cui contrappone un atteggiamento critico.
  I falsi miti principali contro cui si scaglia sono la convinzione di onnipotenza dell’uomo sulla natura, la pretesa di veridicità del sapere che circolava sulle gazzette, ritenuto falso da Leopardi, il presente come età dell’oro e del progresso tecnologico e morale in cui si credeva.
  Poi, volgendo l’occhio sulla situazione italiana, ne critica i costumi e ironizza infine su quanto di stereotipato c’è persino nei moti carbonari e in generale progressisti che proliferavano in quel periodo.
  Una critica più organica sul popolo italiano è presente nel Discorso sullo stato presente dei costumi degli Italiani, testo nel quale Leopardi procede a una dura condanna alla società italiana del primo Ottocento. Qui parte dalla premessa che in tutte le “nazioni civili” si assiste a un indebolimento dei costumi. Le altre nazioni però possiedono una società che si basa su un rapporto intimo tra le persone che richiede stima reciproca, e che nasce dal bisogno di farsi stimare, cioè l’ambizione, che nei tempi precedenti assumeva la forma del desiderio di gloria, mentre nei contemporanei di Leopardi produce il più povero sentimento dell’onore. Risulta quindi importantissima l’opinione pubblica, che rimpiazza i principi morali perduti e consiste nell’apparenza e nel “buon tuono”.
  Passa poi alla critica dei costumi dell’Italia, priva come le altre nazioni di fondamenti morali, ma priva anche della società “stretta” che genera il bisogno di stima. In Italia le occasioni di società sono piuttosto momenti di conformismo e aggregazione: c’è una vaga idea dell’onore, c’è una grande indifferenza, la vita non ha sostanza né apparenza, si dà peso alle “bagattelle” e non alle questioni importanti. In Italia vi sono costumi piuttosto che usanze e abitudini seguiti per assuefazione più che per convinzione intima.
  Per queste ragioni anche nel canto Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, Leopardi preferisce la società passata dell’antico poeta rispetto alla sua.
  La critica ai falsi miti presente nella Palinodia si riscontra anche nella Ginestra, alla fine della sua vita, dove Leopardi denuncia la caducità delle cose e lo strapotere della natura su tutto: il dovere dell’uomo è dunque accettare questa sorte e resistere coraggiosamente. L’opera contiene anche una critica all’illuminismo, il quale da un punto di vista scientifico ha svelato molte realtà, ma sbaglia nel credere di poter consolare l’uomo con queste ultime.
  Anche nei Canti pure più concentrati sulla sfera emotiva si può ritrovare l’insistenza dell’impossibilità della felicità personale e quindi di quella collettiva, pensiero che contrastava il filone di pensiero di stampo illuministico ancora imperante.
  Così, nelle Operette morali, è forte la critica ai falsi miti della società affiancati anche dai temi del tedio dell’infelicità e della natura. I falsi miti bersaglio della critica leopardiana sono le verità propugnate dalla società ottocentesca da lui definite illusorie come il mito del progresso, l’illusione antropocentrica della potenza umana sul mondo, i costumi effimeri e conformisti e in particolare il seguire le mode.
  Il messaggio che ci giunge è dunque di disincantata accettazione della condizione umana, e l’invito a un patto solidale di resistenza inflessibile.

Jiniththa Ganesalingam, Lorenzo Lelli, Stefano Vason, Michele Zappoli   -    5 L-C




Pirandello: critica al progresso e coscienza d’oggi


Già negli anni ’90 dell’Ottocento Pirandello prende coscienza della crisi della società del suo tempo: nel 1893 pubblica il saggio Arte e coscienza d’oggi, sull’arte come specchio della crisi, dove mette in discussione il postulato di fondo del positivismo, approdando ad un soggettivismo relativista: la realtà non è una, ma è vista in maniera diversa da ognuno; allo stesso modo non siamo degli individui ma un insieme di identità, tante quante gli altri ce ne attribuiscono. Della società egli coglie il contrasto che regna tra la vita e la forma che la società impone, che può produrre la pazzia.
  Il saggio inizia con un’analisi di alcune opere letterarie, nelle quali si possono rilevare i “segni caratteristici” del suo tempo: in particolare un ritorno all’antica fede, poiché “lo spirito moderno è profondamente malato, ed invoca Dio come un moribondo pentito”. Anche i critici sempre più spesso tendono a vedere le opere d’arte come frutti di menti malate, anche quando fotografano ciò che secondo Pirandello si è perso: l’amore per la Natura. Infatti con la nostra sete di conoscenza abbiamo perso la capacità di vedere il mondo solo per quello che è: “non son fatte per noi le primavere”, afferma, avvicinandosi all’idea di Leopardi che l’uomo sia destinato a non desiderare che ciò che non potrà mai avere. L’uomo conosce molto bene la natura, ma non è soddisfatto, poiché non è al centro di essa: si è ritrovato ad un tratto sperduto ed il crollo del mito dell’antropocentrismo, (cfr. già  il Leopardi del "Copernico"), ha portato gli uomini a perdere il senso della propria vita. Pur avendo avuto il merito di svelare alcune illusioni, la scienza ha destabilizzato l’uomo senza dargli una soluzione alla sua infelicità; anzi, per colpa sua, egli si trova senza un appoggio divino, con l’unica possibilità di bestializzarsi per non pensare. Così, il credere nel principio di causalità spinge l’uomo a deresponsabilizzarsi, e porta a chiedersi se e quali possano essere norme etiche.
  Ma come reagiscono le persone alla crisi? Se i vecchi tornano all’antica fede, i giovani invece sono confusi: alcuni non si interrogano, altri vivono nell’eterna indecisione, visibile attraverso le mode ed i gusti della società, altri si impegnano in un tentativo di isolamento destinato a fallire. Questo indica la perdita del senso della vita, dell’”inanismo contemporaneo” (di cui Leopardi aveva colto le prime tracce). Lontano è così il raggiungimento degli ideali, dal momento che l’uomo non raggiungerà mai la completa felicità. È necessario trovare però un senso alla propria vita.
  Il progresso, che avrebbe dovuto liberare l’uomo dal lavoro manuale, non solo non gli ha dato la felicità, ma lo ha ridotto a semplice appendice della macchina; l’uomo, condannato all’alienazione ed omologazione, è soprattutto svalutato rispetto alle cose materiali, conseguenza che, anche in questo caso, già Leopardi aveva previsto. L’arte del domani, che qualcuno vorrebbe portatrice del valore del progresso (vi ritornerà lo stesso Pirandello nell’ultima produzione), ma visto che essa deve “nascer spontaneamente dal sentimento”, non potrà fare altro che rispecchiare la crisi .
  La poetica dell'umorismo degli anni 1903-04, culminata nel saggio del 1908, L'umorismo, sottolinea la tendenza ontologica dell'arte umoristica a svelare gli autoinganni che l'uomo si crea, proseguendo sulla strada già battuta da Leopardi: anche qui, di tutti gli autoinganni, quello contro cui Pirandello si scaglia maggiormente è quello dell'infallibilità della scienza e del progresso, come emerge anche nel saggio "Arte e scienza": l'arte non dev’essere interpretata  con le categoria della scienza, perché è un mondo a sé e la mentalità scientifica non è l'unica possibile, ma una delle tante. La visione storica dell’umorismo porta poi ad individuare il principio del bisogno di crearsi autoinganni nella caduta dell'antropocentrismo tolemaico, con le conseguenze viste.
  La poetica dell'umorismo, che passa attraverso il momento del distacco dalla realtà osservata e la riflessione su di essa, diventa così espressione letteraria del relativismo filosofico, che nega i concetti di unità ed oggettività. Per ciò tanti personaggi di Pirandello "si guardano vivere". Ma è specialmente nei "Quaderni di Serafino Gubbio Operatore" che Pirandello critica con ferocia la civiltà moderna e il progresso che disumanizzano l'uomo: il protagonista è duplicemente alienato, in quanto il suo lavoro consiste nel fare il "prolungamento di una macchina", la quale a sua volta è al servizio di un mondo puramente illusorio quale è il cinema - i cui valori, che sono identificati con quelli del futurismo, cioè velocità, aggressività, violenza, rifiuto della cultura, sono totalmente opposti a quelli sostenuti da Pirandello.

Riccardo Belluzzi, Chiara Lorenzini, Marco Turrini, Simone Zocca – 5 L-C


Svevo e la società “malata”

Una Vita è il romanzo d’esordio di Ettore Schmidt, in arte Italo Svevo. Subito si intravede il tema comune a tutte le opere di Svevo, ovvero la nevrosi. Questo si presenta in Una Vita sotto la forma dell’inetto per eccellenza, l’incapace Alfonso Nitti. Questo inetto vive male; un rapporto con la realtà mediato dalla propria frustrazione. Sono le sue elucubrazioni personali che lo portano a vivere ancora peggio. C’è una sola possibilità di dare un senso alla vita: la letteraturizzazione della vita stessa. La scrittura è lo sfogo della nevrosi. La parte viva della vita è quella scritta. Già in questo Italo Svevo si avvicina a Leopardi. In particolare all’ultimo Leopardi, quello della Ginestra, che cerca di dare un senso alla vita tramite la poesia (come la Ginestra dona il suo profumo per alleviare i dolori, così il poeta dona la sua poesia). Alfonso fallisce sia come ideologo, sia come letterato ribelle. Alcuni fondamentali collegamenti con Leopardi sono l’umanità meschina, la situazione elevata dell’intellettuale ormai quasi completamente inibita dalla società di massa, la lotta impossibile dell’inetto contro la sua natura, la decadenza delle funzioni intellettuali nella società di massa. La differenza con Leopardi sta nel fatto che Italo Svevo non fornisce mai un modello positivo o giusto, che sia un eroe vero nella realtà del suo tempo. Anche Macario, lo specchio di Alfonso, è visto sotto aspetti negativi, sempre in tutto il romanzo. La letteratura non è più considerata come valore superiore, aristocrazia dello spirito, ma appare degradata a gioco di società e a strumento di seduzione, e non esiste via di fuga da questa società malata: la nevrosi è un sintomo di distacco della realtà.
  Anche Senilità, come Una vita, ha come protagonista un inetto. Ma la differenza sta nel fatto che Emilio Brentani pur essendo ancora un letterato, non si oppone più alla “normalità” in nome di una formazione umanistica, ma anzi accetta le consuetudini borghesi e vi si uniforma. All’opposizione io-società, letteratura-vita del precedente romanzo segue quella tutta interiore, fra desiderio e repressione.Da vile e incapace qual è, Emilio sogna l’uscita dal nido e il godimento dei piaceri della vita attraverso la figura di Angiolina. Tuttavia, sarà proprio nel rapporto con Angiolina - per Emilio sostanziale rapporto con la realtà - che emergerà l'inettitudine e l'immaturità del protagonista. Infatti Emilio critica la società in cui vive per il fatto che non può sposare la ragazza ma in verità prova una forte paura nei confronti del sesso e della donna, tanto da giungere a trasfigurarla in figura angelica e pura, dalla quale invece Angiolina, superficiale, vanitosa e bugiarda, è infinitamente lontana. Così anche la letteratura e la filosofia gli servono come strumenti di difesa alla sua incapacità di vivere e come mediazioni rispetto al reale.
  All’interno de La coscienza di Zeno, l'autoanalisi del protagonista scompone criticamente la realtà in cui vive e soprattutto il mondo alto-borghese degli affari e della finanza. La realtà borghese, che si autorappresenta sana, viene smascherata come malata attraverso un capovolgimento del rapporto fra sanità e malattia, per cui il protagonista crede di essere guarito solo perché, diventando profittatore di guerra, si è inserito tra i presunti "sani";  ma sono proprio essi che porteranno il mondo alla distruzione descritta nell' ultimo capitolo del romanzo. Queste pagine conclusive risultano fortemente contraddittorie e complesse poiché da una parte Zeno dichiara di essere guarito, ma dall'altra afferma che l'uomo è inevitabilmente destinato alla distruzione e all'estinzione, proprio a causa della civiltà come egli la ha concepita e costruita. La presunta guarigione del protagonista è attribuita ad un'unica causa, il "commercio", cioè la speculazione di guerra che affama i più deboli. La conclusione è che l'uomo è malato senza speranza perché, per sentirsi guarito, deve affermare sé stesso contro gli altri: la guarigione del singolo procede dunque di pari passo con la distruzione dell'umanità. Il messaggio finale dell'opera costituisce perciò una terribile accusa all'umanità e si concretizza in una profezia di catastrofe per il futuro, dalla quale l'uomo non sembra avere alcuna via di scampo. E' dunque possibile individuare un forte debito nei confronti del pensiero leopardiano, il cui pessimismo e la cui critica al progresso e alla società sembrano aver influenzato profondamente il pensiero di Svevo.

Jiniththa Ganesalingham, Lorenzo Lelli, Stefano Vason,  Michele Zappoli - 5°L-C



Vittorini: contro una cultura consolatrice

Vittorini è considerato il maestro del “nuovo realismo” e del Neorealismo post bellico. Il suo è un realismo sperimentale con una matrice lirica e simbolica, con fermenti di origine surrealistica. Egli porta in Italia il “mito dell’America” attraverso l’assimilazione del realismo americano e il sogno di un’umanità totale,  di cui si può cogliere l’essenza attraverso l’arte. Egli unisce un’indiscussa fiducia nella letteratura ad un impegno politico e ideologico; si possono cogliere due aspetti, due anime in questo scrittore: quella del letterato e quella dell’ideologo.
  Lo stesso Vittorini cerca un equilibrio tra questi due aspetti e la conciliazione va ricercata nella scrittura ed è affidata alla forza del messaggio di questa. Si assiste ad una permanente oscillazione tra letteratura e politica, elemento simbolico ed ideologico, lirismo e realismo, tra “mito” e “storia”.
  Egli diresse un giornale, Il Menabò, che proponeva un’apertura verso le Neoavanguardie, famoso per il suo “fiuto per il nuovo” e nato presso l’Einaudi, casa editrice rappresentata da Calvino nella rivista. Vittorini ebbe in questo caso il ruolo fondamentale, davanti ai cambiamenti del suo periodo, di interrogarsi sul ruolo della letteratura nell’universo tecnologico. Le varie pubblicazioni avvennero tra il 1959 e il 1967. Nella rivista dibatterono vari intellettuali su diversi argomenti tra cui il confronto tra lingua e dialetto, la narrativa di guerra, la narrativa meridionale, il contrasto tra letteratura ed industria e il ruolo dei giovani nella società.
  Lo scrittore si interessò soprattutto ad un dibattito, scrivendo il saggio Industria e letteratura con cui accusa gli scrittori contemporanei di arretratezza, rimproverandoli di continuare a guardare la realtà industriale con l’occhio con cui veniva.
  Gli intellettuali accusarono Vittorini di proporsi come portatore di una nuova cultura; egli rispose citando i passi in cui lui e quelli del giornale definiscono i loro legami con la vecchia cultura, dalla quale, tuttavia, vogliono prendere le distanze. Questo perché proprio per il fatto di appartenere alla vecchia cultura sentono l’inefficienza e la miseria di farne parte e avvertono la forte necessità che se ne crei una nuova. Dopo aver ricevuto questa risposta, gli intellettuali si essere conto di essere in errore e non se ne compiacquero, né, tuttavia, lo giustificarono.
  Vittorini non parlò mai con l’atteggiamento di un uomo di cultura d’accademia; lui infatti studiò da autodidatta e non lesse né le lettere di Marx, di Stalin o di Lenin fino alla sua adesione al PCI. Cominciò lo studio dei testi  marxisti, ma nonostante tutto non si reputava un vero marxista poiché era convinto che per diventarlo non bastasse conoscerlo, ma vivere secondo i suoi principi e contribuire alla sua evoluzione. Da qui la sua iniziativa di scrivere per Il Politecnico e sollevare discussioni a tema, convinto che «parlare e discutere non vuol dire conoscere la verità, bensì cercarla>>: questo fu il suo apporto al Marxismo.
La politica e la cultura sono indubbiamente legate tra loro, tuttavia devono rimanere distinte. Quest’ultima infatti, se autonoma, può conferire un aiuto alla politica, mentre quella politicizzata No. Deve quindi essere intesa come cultura sulla strada della ricerca, che dà vita alla politica, deve essere intesa come una cultura che cerca il contatto col livello culturale delle masse per incentivarle all’azione. La storia è quindi diretta dalla politica e non dalla cultura, anche se sono strettamente legate. Infatti, nella rivoluzione, cultura e politica si somigliano molto, ma guai a confonderle: la prima deve rimanere una ricerca ed esprimersi alle masse tramite la politica. La cultura vuole la rivoluzione, è in costante ricerca di una evoluzione che cambi il mondo: <
  Il politico deve interagire con la cultura attraverso criteri culturali e non politici e sta allo studioso differenziare la politica (cioè la vita di un autore) dalla cultura (le sue opere). Essere un rivoluzionario non vuole quindi dire per forza produrre cultura rivoluzionaria; il poeta produce cultura attraverso ciò che sente, e non per celebrare la politica, in quanto l’oggetto di questa è il pensiero del presente, mentre quello della cultura è il pensiero rivolto al futuro in cerca di un’evoluzione.

 

Filippo Carnevali, Ilaria Cataldo, Chiara Fazio, Vasco Valenti - 5 L/C



Pasolini: omologazione e pulsioni vitali

In un periodo che va dagli anni’50 alla metà degli anni ’70, proponendo un’interpretazione simile a quella avanzata da Horkeimer negli anni’40, che aveva seguito il processo di trasformazione della società legato al capitalismo industriale negli Stati Uniti, Pier Paolo Pasolini elabora una critica alla società di massa in Italia, di cui riconosce le principali caratteristiche nel trionfo del singolo, nell’edonismo, nel benessere individuale, nel personalismo e nella società dei mezzi e non dei fini. Proprio la società di massa, per Pasolini, con la sconfitta dei valori tradizionali e delle classi e istituzioni che ne erano portatrici (tra cui la Chiesa, il fascismo storico, il Partito Comunista) è la causa dell’omologazione dei comportamenti e degli individui. In “Acculturazione e acculturazione” (1973) dichiara che l’industrializzazione che si afferma all’interno della nuova società non si accontenta più di un uomo che consuma, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo.
  Pasolini riconosce che i valori nella storia non sono mai stati universali, ma rappresentativi di una certa concezione del mondo; però, per quanto dispotici, questi valori hanno sempre rappresentato un’aspirazione più alta dell’auto-conservazione: la perdita di questi miti ha causato ora una denaturazione, una perdita di vitalità generalizzata.
  Intellettuale corsaro perché si muove solo e isolato in campo nemico, Pasolini non è un illuso: sa che non si può tornare indietro o rimpiangere ciò che è stato per cui identifica le due vie d’uscita possibili in una rivoluzione culturale (ipotesi che lo avvicina a Vittorini) o nella civilizzazione del capitalismo dall’interno. La sua analisi può risultare a volte un po’ unilaterale o di parte ma ha il grande pregio di far saltare agli occhi che ciò che accomuna tutte le classi è l’avvento di un nuovo potere che riduce gli italiani ad un solo modello, cioè una nuova piccola borghesia: da questo discende che saltano tutte le categorie, di destra/sinistra, di reazione/progresso, di fascismo/antifascismo. Per Pasolini “il potere ha bisogno di un nuovo tipo di suddito che sia prima di tutto un consumatore”, per cui quest’uniformità produce un vero e proprio genocidio culturale.
  Alcuni, tra cui Marchese, il già citato Horkeimer e nel secolo precedente Marx, avevano intuito tutte queste tendenze, ma è solo ora che questo processo arriva a compimento: inoltre Pasolini  si rende conto di questo tramite la propria esperienza, e in questo è assimilabile a Leopardi. Il conflitto tra pubblico e privato e il ruolo dell’esperienza assume qui una grande importanza: la condizione personale diventa un modo per svelare gli stravolgimenti e i conflitti della società di massa, mentre la trasgressione dei valori borghesi l’unica alternativa alle leggi del sistema.
  Gli Scritti Corsari sono una critica intellettuale della realtà, senza ironia (e in questo è diverso da Leopardi), di una razionalità che assomiglia ad una requisitoria; la sua è una saggistica politica d’emergenza: si tratta di un insieme di testi e articoli che costituiscono un libro vero e proprio intorno ad alcuni temi principali, di cui l’autore affida nella premessa la riorganizzazione e il collegamento al lettore. La lingua è il campo in cui Pasolini registra i maggiori effetti della rivoluzione antropologica: l’assenza storica di una lingua nazionale in Italia accentua questo processo di cui televisione, scienza e tecnologia sono le maggiori cause: queste sono alla base della riorganizzazione dei codici linguistici e dell’impoverimento del linguaggio. In questo quadro il compito dello scrittore è quello di allontanarsi dal mezzo, e, come poi farà Gadda, scrivere con un linguaggio a tratti alto a tratti popolare; da qui discende un richiamo positivo alle pulsioni vitali del popolo, alternativa alla spietatezza economica del capitalismo.
  In un articolo intitolato “Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino” (1974), indirizzato a Calvino che lo accusa di rimpiangere l’età dell’oro e quell’italietta “piccolo borghese fascista democristiana”, dopo aver negato di rimpiangere alcunché, esprime tutta la sua preoccupazione per la scomparsa della cultura contadina e dell’”età del pane” per cui oggi il conformismo varca i confini delle classi sociali e delle regioni; così come i consumi necessari rendevano la vita necessaria, oggi i consumi superflui rendono la vita superflua: dall’omologazione che produce individui infelici o frustrati si salva solo un’élite, che corrisponde alla società ristretta di cui diceva Leopardi.
                       
Giacomo Frascaroli, Luca Gentile, Nicolò Lewanski, Valerio Paselli - 5L-C


Montale: l’ironia sui nuovi epistemi


Satura costituisce il quarto e ultimo libro poetico di Montale, che si colloca in un contesto storico e sociale assai diverso da quello che aveva fatto da sfondo alle raccolte precedenti. Viene infatti dieci anni dopo la realizzazione della “Bufera”, anni in cui Montale optò per il silenzio poetico a causa della "perdita della forma" nella società industriale e del dopoguerra. Accanto alla rielaborazione del lutto per la morte della moglie, protagonista è anche la polemica verso il mondo attuale. Montale descrive la società i cui albori furono colti più di un secolo prima dal più grande poeta dell’800: Giacomo Leopardi.
  L'unica poesia possibile nella società dell’era moderna è quella cosciente di vivere nell'epoca della prosa. La non-poesia è dunque la poesia di Satura. Nella "società dell'ossimoro" e "del trionfo della spazzatura" non è più possibile distinguere tra valore e disvalore, tra alto e basso, tra giusto e sbagliato. Ecco una poesia inclusiva, che accetta e raccoglie ogni tipo di materiale rielaborato da una poetica che sempre più tende, al basso, al prosastico e al satirico. Il recupero del plurilinguismo della "Bufera" è dunque al servizio di un atteggiamento ironico, parodico e dissacratorio, spesso amaramente divertito.
  Questa critica verso tutti i falsi miti e le false convinzioni del nuovo secolo non risparmia nemmeno la sua produzione precedente. Satura è infatti anche una grande autocritica dello stesso Montale. La moglie “Mosca” viene presa come esempio di capacità di adattamento al "trionfo della spazzatura". Proprio dalla sua lezione deriva il ricredersi del poeta: attraverso un continuo citazionismo delle sue opere precedenti egli demistifica i valori illusori su cui aveva puntato come tutti gli intellettuali, autoingannandosi.
  Non vi è alcuna verità nel passato, come non vi è alcuna speranza nel futuro: in Satura domina l'assoluta autorità del presente. Emblematica da questo punto di vista sono "Auf wiedersehen" e “La storia”, poesie che presentano una malinconica riflessione che coglie la contraddizione profonda della nostra epoca. Questi componimenti dai toni pacati e rassegnati sono una denuncia sconvolgente contro una società di luoghi comuni, di falsi miti, imperante ormai nella sua epoca e della quale proprio Leopardi aveva colto i primi albori.
  La storia è allora vivere il presente, negando ogni tipo di causalità e presentandola, contro le tesi dell’idealismo e del marxismo, come un seguito di fatti in cui il “prima” e il “dopo” sono un incidente cronologico e niente più. In questo disordine qual è dunque la posizione ultima del poeta? Ironicamente egli conclude, nella poesia “La storia”, dicendo di essere un “sopravvissuto”: in fondo è riuscito a trovare uno spiraglio nella rete travolgente degli eventi. Le ultime righe di questa poesia conducono ad una riflessione che prende anche in considerazione la poetica di Leopardi, riguardo alla concezione della storia e propriamente del rapporto uomo/tempo. Ma, mentre Montale individua come unica possibilità di salvezza la fuga dalla rete della storia che tutto accumula lasciando pochi sopravissuti, il poeta di Recanati vede invece la natura come nemico principale degli uomini. Il tempo è dettato da leggi cosmiche che inevitabilmente catturano l’uomo e lo imprigionano in un paesaggio ostile. Leopardi già preannuncia quello che sarà il fulcro di tante poetiche degli autori del Novecento e, in particolare, di Montale: il nemico per l’individuo diventa però la società moderna, cioè il paesaggio ostile in cui anche la storia diventa uno strascico che trascina via tutti i valori.
  Ma il presente è il tempo dominante in Satura anche ad un altro livello. Da evidenziare sono infatti i continui riferimenti agli eventi e alle idee contemporanee descritte e derise in virtù di ciò che rappresentano: due splendidi esempi del carattere giornalistico di Satura sono le poesie "Fanfara" e "Piove", che assumono come diretto oggetto costumi, sentimenti e convinzioni diffuse nella nostra società, sulla quale domina l’assenza e sulla quale piove senza speranza.
  Di fronte a questo disastro, Montale ci “tranquillizza” con terribile ironia intitolando "Niente di grave" una poesia che con tono sommesso descrive il tragico e apocalittico finale a cui l'umanità tutta è destinata. In questo mondo la cui creazione viene paragonata a una casuale e inspiegabile estrazione alla lotteria è dunque "fatale a chi nasce il dì natale"? E qual è lo spiraglio che Montale ci lascia per andare avanti, ostinati come ginestre nel deserto? La risposta a tali domande possiamo trovarla in poesie come "Nel fumo" dove in un "ricordo come tanti altri" della moglie, l'amore sopravvive ostinato. In questo sta il miracolo di Satura: nello stravolgimento di ogni valore serpeggia una nota di struggente dolore, di accorato rimpianto dove persiste tuttavia la nostra umanità. Nella gioia per l’arrivo della moglie, Montale si distacca da quel paesaggio oscuro e freddo del presente per proiettarsi nel fuoco di allora, che, seppur soffocato dall'inclemenza dei nuovi tempi, ancora brucia, ancora vive.

 

Alessandro Berti, Nicola Pedrazzi, Francesco Roffi, Giovanni Battista Saccone - 5 L-C


Calvino: la sfida al labirinto

Italo Calvino ha cercato per tutta la vita una risposta morale o razionale ad un mondo incomprensibile e labirintico. Per riuscire in questo suo intento ha preso varie strade, sempre accompagnate da un forte gusto per l’indagine razionale. Le strade erano: un “impegno” post- bellico, la scienza semiologica e un pessimistico senso di impotenza pur salvaguardano l’arte e alcuni valori.
  Due grandi saggi scritti nel 1959 e nel 1962, Il mare dell’oggettività e La sfida al labirinto, mostrano un confronto serrato con il nuovo romanzo francese e con le teorie della Neoavanguardia: Calvino crede ancora alla possibilità di studiare la complessità senza farsene travolgere, anzi, mantenendo vigilie un impegno razionale e morale, volto a trasformare le realtà.
  Ne La sfida al labirinto lo scrittore risponde al problema del rapporto industria-letteratura: occorreva cercare il «midollo del leone», il nutrimento fondamentale di cui il letterato necessita per avere un corpo sano e vigoroso, in modo da essere forte e non arrendersi. La morale che egli cercava doveva essere una risposta alla mancanza di ideali e ad una letteratura al negativo. Il messaggio è di vivere la contraddizione della realtà, entrare nel labirinto, capirne il meccanismo e fare in modo che tutto ciò avvenga all’interno di esso. Solo attraverso la cultura, che è l’arma della ragione, si può sconfiggere la cultura dell’assenza, poiché l’arte è la «breccia attraverso cui passare al contrattacco». L’interpretazione di Calvino del labirinto diventa assai simile a quella del meandro: l’uomo è il ricercatore di un centro che apparentemente non esiste, ma di fatto va trovato. La stessa questione è affrontata nel Mare dell’oggettività, un saggio che denuncia, appunto, l’eccessiva oggettività proposta dalla letteratura della Neoavanguardia e che comunica al lettore che bisogna cercare una tensione che scuota le acque di questo “mare”. Per lo scrittore, la minaccia incombente è «la perdita dell’io la calata nel mare dell’oggettività indifferenziata, senza che ci sia più alcuno spazio per la soggettività». Sia la figura del labirinto che quella del mare sono considerati luoghi di smarrimento e la via d’uscita, la soluzione che lo scrittore è una mappa, il risultato di un presupposto inalienabile: se l’uomo è un labirinto immenso, non è necessario esplorarlo tutto, basta conoscerne il suo elemento più piccolo, una piega, un microcosmo. È questo, infatti, che intende analizzare: il piegarsi e il dispiegarsi dell’animo umano. «Dalla letteratura dell’oggettività alla letteratura della coscienza» usando le parole dello stesso Calvino. La sua è una visione sicuramente non ottimistica che però lascia spazio alla speranza e alla possibilità di uscire dal “labirinto”, dal “mare”, per capire meglio l’uomo e la società in cui è inserito. Il labirinto, infatti, non rappresenta solo l’uomo, ma ha un duplice significato, in quanto è simbolo anche della realtà, del contesto sociale. La soluzione, la mappa, è valida quindi non solo per imparare a conoscere meglio l’individuo, ma anche a capire la realtà che lo circonda.
  Il periodo in cui Calvino scrisse da ultimo le Lezioni americane è quello in cui gli intellettuali facevano un gran parlare del fatto che si stava per chiudere il millenni del libro e ci si interrogava su quale potesse essere la sorte della letteratura nell’era tecnologica postindustriale ormai iniziata: con queste lezioni Calvino intendeva dare il suo contributo al dibattito, facendo il punto su quanto da lui sperimentato nel suo lungo, ininterrotto esercizio di scrittura. Nelle sue opere precedenti lo scrittore aveva parlato spesso del ruolo del racconto e della minaccia che a quel mondo può giungere dai computer, per esempio. Più volte, nei racconti che aveva scritto in passato, l’autore, si era prefigurato l’invenzione di calcolatori che, forniti di una serie di elementi, venissero sostituiti al letterato stesso, creando la storia con le loro doti combinatorie. Con queste lezioni Calvino voleva innanzitutto dire che aveva fiducia nel futuro della letteratura, perché ci sono cose, come le emozioni, che solo lei sa regalare; egli intendeva dedicare le conferenze proprio a quelle che nel suo percorso aveva trovato essere le qualità della letteratura, cercando di gettare le basi per la loro continuità nel nuovo millennio. Calvino ha individuato queste qualità nella Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità: questi termini testimoniano la ricerca sul mondo del racconto che lo scrittore sentiva di non avere ancora portato a termine.

Filippo Carnevali, Ilaria Cataldo, Chiara Fazio, Vasco Valenti - 5 L-C


Valor vero e virtù, modestia e fede
E di giustizia amor, sempre in qualunque
Pubblico stato, alieni in tutto e lungi
Da' comuni negozi, ovvero in tutto
Sfortunati saranno, afflitti e vinti;
(G. Leopardi, dalla Palinodia al marchese Gino Capponi)

«A me la coscienza moderna dà l’immagine di un sogno angoscioso attraversato da rapide larve or tristi or minacciose, d’una battaglia notturna, di una mischia disperata, in cui s’agitino per un momento e subito scompajano, per riapparirne delle altre, mille bandiere, in cui le parti avversarie si sian confuse e mischiate, e ognuno lotti per sé, per al sua difesa, contro all’amico e contro al nemico. E’ in lei un continuo cozzo di voci discordi, un’agitazione continua. Mi par che tutto in lei tremi e tentenni. Alla calma fiduciosa di certa gente serena non credo. Che avverrà domani?»
(L. Pirandello, da Arte e coscienza d’oggi)

«Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' piú ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie» (I. Svevo, da La coscienza di Zeno)

«La società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è società perché ha in sé l’eterna rinuncia del “dare a Cesare” e perché i suoi principii sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive. Potremmo mai avere una cultura che sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo?» (E. Vittorini, dal “Politecnico”)

«Il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione di tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. E’ qui che si vivono i valori, non ancora espressi,della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto», 8 luglio 1974 (P. PasoliniLimitatezza della storia e immensità del mondo contadino, da Scritti Corsari)

AUF WIEDERSEHEN
hasta la vista, à bientôt, I’ll be seeing you,
                                                           [appuntamenti
ridicoli perché si sa che chi s’è visto s’è visto.
La verità è che nulla si era veduto
e che un accadimento non è mai accaduto.
Ma senza questo inganno sarebbe inesplicabile
l’ardua speculazione che mira alle riforme
essendo il ri pleonastico là dove
manca la forma.
(E.Montale, da Satura)

«Resta fuori chi crede di poter vincere i labirinti sfuggendo alla loro difficoltà; ed è dunque una richiesta poco pertinente quella che si fa alla letteratura, dato un labirinto, di fornirne essa stessa la chiave per uscirne. Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto» ( I. Calvino, Una pietra sopra)


Bibliografia:

Ø     G. Leopardi,  Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (1824).
Ø     G. Leopardi, Operette morali 
Ø     G. Leopardi, Canti (Ultimo canto di Saffo, Bruto minore, Infinito, La sera del dì di festa, A Silvia, Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, La quiete dopo la tempesta, Il passero solitario, Il sabato del villaggio, A se stesso; Sopra il Monumento di dante, Ad Angelo mai, All’Italia, Palinodia al marchese Gino Capponi; La Ginestra o il fiore del deserto.)
Ø     critica letteraria: a) E.Raimondi, Letteratura e identità nazionale, Milano, Bruno Mondadori, 1998; b) Breviario dei classici italiani, a c. di G.M. Anselmi, A. Cottignoli e E. Pasquini, Milano, Bruno Mondadori,1996; C. Galimberti, voce Leopardi, Giacomo, in Dizionario critico della letteratura italiana, a c. di V. Branca, Torino, Utet, vol II,  1986;
Ø     L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, L’umorismo, Arte e coscienza d’oggi, Arte e scienza
Ø     I. Svevo, Una vita, Senilità, La coscienza di Zeno
Ø     E. Montale, Ossi di seppia, Occasioni, La bufera e altro, Satura (scelta)
Ø     P.P.Pasolini, Scritti corsari
Ø     E. Vittorini, articoli scelti dal “Politecnico”
Ø     I. Calvino, Una pietra sopra, Lezioni americane

25/04/10

ITALO CALVINO

Per Calvino bisogna parlare di un narratore di tantissimi romanzi, tra il genere realistico, quello fantastico e la sperimentazione;egli è inoltre stato  un formidabile saggista e intellettuale attento agli avvenimenti mondiali, che intervenne spesso sui giornali, insieme a Pasolini.

Il narratore realistico: Il sentiero dei nidi di ragno
Il sentiero dei nidi di ragno è il primo romanzo di Italo Calvino, scritto nel 1947, cioè quando l’autore aveva 24 anni e già collaborava con la casa editrice Einaudi occupandosi dell’ufficio stampa e della pubblicità. E' un romanzo di impianto neorealista (la corrente che dominò il dopoguerra, tra letteratura e cinema), mal’approccio dell’autore alla Storia è del tutto nuovo: il punto di vista della narrazione è quello d’un bambino, una volontaria regressione che permette di raccontare la guerra partigiana da una lontananza notevole e senza strumenti etici definiti
Pin ha circa dieci anni, ha perso i genitori, vive con la sorella che fa la prostituta, lavora presso la bottega di un calzolaio mentre il padrone è in prigione e desidera piacere ai grandi, al punto da fare una scommessa che gli costerà cara: per vincere, ruba la pistola all’amante della sorella, la favolosa P38 e la nasconde nel suo luogo segreto, il sentiero dei nidi di ragno che è per lui un rifugio e una “palestra” di crudeltà. Qui vige la legge della natura selvatica e incontaminata, qui il bambino replica ciò che vede fare ai grandi, applica il diritto del più forte massacrando rane, ragni e grilli. La bravata della pistola conduce Pin in prigione, e poi, in seguito all’evasione con il partigiano Lupo Rosso, nel cuore della Resistenza, sulle montagne liguri.
Un romanzo antiretorico e aspro. Calvino adotta una lingua dimessa eppure esatta e oggettiva, e descrive anche gli aspetti violenti della Resistenza.  Il romanzo di Calvinoha  un una posizione eccentrica rispetto all'affermarsi del Neorealismo in quegli anni.
I personaggi ritratti sono umili; c'è un solo intellettuale, il quale si incarica un po' di sintetizzare l'intera morale della faccenda; si tratta del commissario di brigata Kim, un giovane un po' medico e un po' filosofo.
Egli comprende, con la forza dialettica del proprio pensiero, che dentro la Resistenza ci sono tante anime, ma anche un denominatore comune, una motivazione fortissima: la speranza, per tutti, di un riscatto.  


 Il narratore fantastico: Il cavaliere inesistente  


Sotto le rosse mura di Parigi era schierato l’esercito di Francia. Carlomagno doveva passare in rivista i paladini. Già da più di tre ore erano lì; faceva caldo; era un pomeriggio di prima estate, un po’ coperto, nuvoloso; nelle armature si bolliva come in pentole tenute a fuoco lento. Non è detto che qualcuno in quell’immobile fila di cavalieri già non avesse perso i sensi o non si fosse assopito, ma l’armatura li reggeva impettiti in sella tutti a un modo.

Provai a scrivere altri romanzi neorealistici, su temi della vita popolare di quegli anni, ma non riuscivano bene [...]. Era la musica delle cose che era cambiata: la vita sbandata del periodo partigiano e del dopoguerra s’allontanava nel tempo [...]. Così, in uggia con me stesso e con tutto, mi misi, come per un passatempo privato, a scrivere Il visconte dimezzato [...]
Così scrive lo stesso Italo Calvino nella Postfazione ai Nostri antenati (1960). La Trilogia Araldica nasce dunque dall’esigenza di Calvino di scrivere non quello che l’ambiente culturale e politico s’aspetta dalla sua penna, ma quello che la sua ispirazione, la sua passione, e le sue letture giovanili comandano. D’altro canto, è bene comprendere come la Trilogia Araldica non sia un favolistico passatempo che esula dalla contemporaneità dello scrittore, anzi, l’opera si ricongiunge alla dimensione non solo per certi versi politica, come nel caso del Visconte dimezzato (per prendere i due apici che aprono e chiudono la raccolta), ma anche, nel caso del nostro romanzo,Il cavaliere inesistente (1956), all’individuo umano e alla sua situazione coeva.
Dall’uomo primitivo che, essendo tutt’uno con l’universo, poteva esser detto ancora inesistente perché indifferenziato dalla materia organica, siamo lentamente arrivati all’uomo artificiale che, essendo tutt’uno coi prodotti e con le situazioni, è inesistente perché non fa più attrito con  nulla, non ha più rapporto (lotta e attraverso la lotta armonia) con ciò che (natura o storia) gli sta intorno, ma solo astrattamente “funziona”.
L’inesistenza e l’esistenza, quello che c’è e quello che non c’è. «Questo nodo di riflessioni», dice sempre Calvino«s’era andato per me a poco a poco identificando con un’immagine che da tempo mi occupava la mente: un’armatura che cammina e dentro è vuota». Siamo al tempo di Carlomagno, dei cavalieri erranti, trattati però (e non poteva essere altrimenti) col riso, parodizzati sia nella caratterizzazione fisica e comportamentale, sia nelle vicende e sia da un punto di vista propriamente linguistico-retorico. Ed a cavallo tra la parodia e l’intertestualità (quest’ultima che prende forma nei molteplici rimandi all’Orlando furioso e alla Gerusalemme liberata), la crisi dell’identità si fa evidente da subito nella figura di Agilulfo, il cavaliere che non c’è, perfettamente introdotto dal suo scudo che, con quel suo stemma mise en abyme (per rimanere al più evidente dei significati), giunge ad essere indistinguibile. Dice ancora Calvino:
Agilulfo, il guerriero che non esiste, prese i lineamenti psicologici d’un tipo umano molto diffuso in tutti gli ambienti della nostra società [...] (inesistenza munita di volontà e coscienza). Dalla formula Agilulfo ricavai, con un procedimento di contrapposizione logica, [...] la formula esistenza priva di coscienza, ossia identificazione generale col mondo oggettivo, e feci lo scudiero Gurdulù.
Pubblicato nel 1959, Il cavaliere inesistente, che fa parte della trilogia I nostri Antenati, ci conferma la vena favolistica di Calvino.Il romanzo narra le vicende di Agilulfo, paladino di Carlomagno, che se ne va in giro, insonne, in una lucida armatura bianca, incline alle azioni perfette e alla nobiltà d'animo, pronto a raddrizzare torti, tutto spirito e razionalità, ma con un difetto: non esiste, o meglio la sua consistenza non è altro che la sua armatura vuota.
Innamorata di Agilulfo è  Bradamante, ammirata dello spirito di perfezione del cavaliere e stanca della carnale pesantezza degli altri uomini.
Altri personaggi significativi del racconto sono: lo scudiero del cavaliere, Gurdulù, che gli è complementare, vale a dire è tutto corpo, carnalità e natura, senza un briciolo di coscienza; Rambaldo, un giovane ardente, animato da smania di battaglie e di amori, che vuole vendicare il padre ucciso dagli infedeli; Torrismondo, alla ricerca delle proprie origini
L'intreccio è svelato dalla monaca Suor Teodora, che scrive dall'interno di un convento, la quale si rivelerà poi essere, nel finale, nientemeno che Bradamante e ha come sfondo la guerra fra i cristiani e i mori.
Dietro la piacevolezza avventurosa e nello stesso tempo comica del racconto, sotto l'apparente divertimento dell'autore, affiora l'angosciosa raffigurazione dell'uomo moderno, la sua impossibilità di essere autentico, l'identità incerta e vacillante di ognuno di noi, la fuga nella nevrosi, nella maschera del proprio ruolo sociale, o peggio ancora, nell'incoscienza.

Una semplicità soltanto apparente, quella di Calvino, un sorriso che disvela la triste condizione dell'uomo contemporaneo, l'universale fuga da se stessi, l'insensato dibattersi delle nostre vite ("Non c'è senso in nulla", disse Torrismondo).

Il racconto è accompagnato dalle intelligenti annotazioni sulla scrittura, i suoi moventi e le sue difficoltà, compiute dalla voce narrante,  Suor Teodora, che produce così un sottotesto sul ruolo dello scrittore, sull’esercizio narrativo, sulle potenzialità dello scrivere e sui rapporti tra scrittura e vita.
Il linguaggio utilizzato da Calvino è un italiano "medio", arricchito da vocaboli provenienti dai linguaggi settoriali relativi a diverse discipline (la gastronomia, le armature antiche, ecc.).

Video da Cult Book sul cavaliere inesistente: 
http://www.youtube.com/watch?v=QhInPTESfE8


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Il tema della percezione e’ un elemento centrale di Palomar, di Italo Calvino. Si prenda ad esempio il terzo racconto del libro, ‘La spada del sole’:

“…Il riflesso sul mare si forma quando il sole s’abbassa: dall’orizzonte una macchia abbagliante si spinge fino alla costa, fatta da tanti luccichii che ondeggiano; tra luccichio e luccichio, l’azzurro opaco del mare incupisce la sua rete… E’ l’ora in cui il signor Palomar, uomo tardivo, fa la sua nuotata serale. Entra nell’acqua, si stacca dalla riva, e il riflesso del sole diventa una spada scintillante nell’acqua che dall’orizzonte si allunga fino a lui. Il signor Palomar nuota nella spada o per meglio dire la spada resta sempre davanti a lui, a ogni sua bracciata si ritrae, e non si lascia mai raggiungere…Mentre il sole scende verso il tramonto, il riflesso da bianco-incandescente si colora d’oro e di rame. E dovunque il signor Palomar si sposti, il vertice di quell’aguzzo triangolo dorato e’ lui; la spada lo segue, indicandolo come la lancetta dell’orologio che ha per perno il sole…’.
La riflessione di Calvino riguarda il tema dell’illusione delle immagini mentali, originate dai segnali luminosi che impattano sulla retina, trasformatisi in impulsi elettrici lungo il nervo ottico e solo successivamente ricostruite dalla materia cerebrale.
“Tutto questo avviene non sul mare, non nel sole – pensa il nuotatore Palomar- ma dentro la mia testa, nei circuiti tra gli occhi e il cervello. Sto nuotando nella mia mente; e’ solo la’ che esiste questa spada di luce; e cio’ che mi attira e’ proprio questo”.
La spada del sole e’ propriamente un’illusione, un’immagine costruita dalla mente, a cui non corrisponde nulla.
C’e’ un brano de Il Saggiatore di Galileo Galilei che presenta una forte analogia con il testo di Calvino. Il brano si trova nella sezione 21, in cui Galileo discute il carattere illusorio delle comete. Incidentalmente, Galileo aveva una teoria errata di questi fenomeni celesti. Per Galileo le comete erano illusioni ottiche, riflessi solari negli alti vapori atmosferici; fatte, verrebbe quasi da dire, della stessa sostanza dei sogni. Illusioni, dice Galileo, in definitiva create dai nostri sensi, prodotte dal nostro ‘corpo sensitivo’. Se questo improvvisamente ci fosse tolto, ecco che sarebbero “levate ed annichilate tutte queste qualita’”, niente “altro che puri nomi”, percezioni prive di un riferimento esterno.
Quale esempio usa Galileo per descrivere il carattere illusorio di questi oggetti celesti? Quello della ‘spada del sole’.
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Vedi anche questo ottimo IPERTESTO su CALVINO con molte citazioni

e per la biografia/cronologia vai a ITALICA RAI Grandi narratori del 900

24/03/10

BERLINO

IL CIELO SOPRA BERLINO 


QUI IL VIDEO https://www.youtube.com/watch?v=B1lqj5beiSA

Berlino  è divisa come il nostro mondo,
è scissa come il nostro tempo,
è separata come lo sono uomini e donne,
giovani e anziani,
poveri e ricchi,
è frantumata come ciascuna nostra esperienza.
(Wim Wenders)

(...)
Traversiamo le tenebre degli spiazzi vuoti dove crescono i ciuffi d’erbacce
i tram traversano le piazze i cui palazzi barocchi sono distrutti
e le pietre bruciate spezzate si somigliano talmente che la testa
ci gira e giriamo in tondo
questa città è tutta bucata perchè ha mandato i suoi soldati a distruggere altre città
(N. Hikmet, Notturno in tram a Berlino)

La rinascita di Berlino

Un tema dominante della narrativa tedesca, tradotta recentemente in lingua italiana, è la caduta del muro di Berlino. L’evento rappresenta una vera e propria cesura storico-letteraria non solo in Germania. Il romanzo in lingua tedesca ha svolto un ruolo decisivo nell'interpretazione di un mondo in rapido cambiamento.
Prima della caduta del Muro, nell’immaginario dei giovani degli anni ’80, Berlino era soprattutto quella rappresentata nel libro-verità “Christiane F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino” (1979) che divenne un film nel 1981.
Appena pochi anni dopo, nel 1984, la cantante Nena parla della guerra fredda a ritmo di pop lanciando i suoi “99 Luftballons”, che in cielo vengono scambiati per oggetti non identificati e forse pericolosi e così vengono attaccati dalle contraeree dai due blocchi e portando allo scoppio della guerra! Non era ancora mai accaduto che una canzone tedesca divenisse una hit internazionale.

La scrittrice tedesca più nota e rappresentativa della DDR in quegli anni era Christa Wolf. Il suo romanzo  Il cielo diviso, una storia d’amore ai tempi del Muro, è ormai un piccolo classico. I progetti di Manfred e Rita si infrangono contro il Muro (innalzato nel 1961) che li pone di fronte alle proprie differenze di ideali e di carattere: Manfredi decide di scappare in occidente e Rita di rimanere e resistere per portare avanti la propria lotta. La riflessione intimista e la storia individuale intrecciata alla Grande Storia è caratteristica di tutta la produzione della Wolf.

Berlino è anche la protagonista della "rivoluzione scientifica" del '900 (Heisenberg, Bohr, Planch, Einstein)

Antonio Scurati su Berlino capitale del XX secolo


ERALDO AFFINATI, BERLIN, RIZZOLI  2009

La Berlino di questo libro non conosce confini, né geografici, né storici. Parlano le statue, il Muro, i grattacieli, le stazioni, le vie, le piazze, i morti, i vivi. Parlano Jesse Owens, Vladimir Nabokov, Rosa Luxemburg, Franz Kafka, Marlene Dietrich, le aquile del Terzo Reich e la Madonna del Botticelli. Apre la Dea della Vittoria che stringe la lancia aspirando i profumi del Tiergarten; chiude Albert Einstein, il cui genio sembra scintillare nello sguardo rapido di un ragazzine in bicicletta. Eraldo Affinati scende nei bunker sotterranei, nuota nelle piscine pubbliche, corre in BMW, sorride ai fantasmi, si perde in periferia, ritrova il sentimento italiano nei quadri della Gemäldegalerie e nelle canzoni di Mia Martini. Si rivolge a Marx ed Engels. Ammira gli studenti della Biblioteca Nazionale. Riflette nella Stanza del silenzio. Ci racconta degli Hohenzollern e delle giovani reclute morte sulle alture di Seelow per difendere Hitler. Fa amicizia coi venditori di Kebab. Segue gli ultimi sopravvissuti dei lager. Ascolta i piloti della Luftwaffe, le prostitute dell'Artemis, i calciatori corrotti della Dynamo, le gracchie che volano sugli stabilimenti dismessi della Sprea, perfino le birre tracannate sui banconi delle Kneipen. Alla fine ci consegna il ritratto impossibile di un camaleonte: una città che sembra più vera di quella autentica, ma è fantastica come una leggenda.

31/01/10

1889!

E' l'anno della Esposizione Universale a Parigi

















E' l'anno in cui sono pubblicati:
Mastro Don Gesualdo di Giovanni Verga
Il piacere di Gabriele D'Annunzio
Myricae di Giovanni Pascoli (1889-1991)

A BOLOGNA si tiene un'esposizione nel 1888

«Bologna è bella. Gl’italiani non ammirano, quanto merita, la bellezza di Bologna: ardita, fantastica, formosa, plastica, nella sua architettura, trecentistica e quattrocentistica, di terra cotta, con la leggiadria delle loggie, dei veroni, delle bifore, delle cornici. Che incanto doveva essere tutta rossa e dipinta nel cinquecento!»
(G. Carducci, Grazie. Esposizione di Bologna, 10 giugno 1888
)



CARDUCCI E PASCOLI 




Nella piazza di San Petronio

Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna,
e il colle sopra bianco di neve ride.

È l'ora soave che il sol morituro saluta
le torri e 'l tempio, divo Petronio, tuo;

le torri i cui merli tant'ala di secolo lambe,
e del solenne tempio la solitaria cima.

Il cielo in freddo fulgore adamàntino brilla;
e l'aër come velo d'argento giace

su 'l fòro, lieve sfumando a torno le moli
che levò cupe il braccio clipeato de gli avi.

Su gli alti fastigi s'indugia il sole guardando
con un sorriso languido di vïola,

che ne la bigia pietra nel fosco vermiglio mattone
par che risvegli l'anima de i secoli,

e un desio mesto pe 'l rigido aëre sveglia
di rossi maggi, di calde aulenti sere,

quando le donne gentili danzavano in piazza
e co' i re vinti i consoli tornavano.

Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema
un desiderio vano de la bellezza antica.

(G. Carducci, Odi Barbare)
Libreria Zanichelli,Bologna



I FUNERALI DI CARDUCCI