01/02/09

La noia in Leopardi e in Baudelaire


-->G. Leopardi, Operette Morali : Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare
Genio: Come stai Torquato?

Tasso: Ben sai come si può stare in una prigione..

(…)

Genio: Che cosa è la noia?

Tasso: A me pare che la noia sia della materia dell’aria. Tutti gli intervalli della vita umana sono occupati dalla noia

Genio: e da poiché tutti i vostri diletti sono di materia simili ai ragnateli, tenuissima, radissima e trasparente; perch’io come l’aria in questi, così la noia penetra in quelli da ogni parte e li riempie.

Zibaldone

La noia corre sempre e immediatamente a riempiere tutti i vuoti che lasciano negli animi de’viventi il piacere e il dispiacere; il vuoto, cioè lo stato d’indifferenza e senza passione, non si dà in esso animo, come non si dava in antura secondo gli antichi. La noia è come l’aria quaggiù, la quale riempie tutti gl’intervalli degli altri oggetti, e corre subito a stare lè donde questi partono, se altri oggetti non gli rimpiazzano. O vogliamo dire che il vuoto stesso dell’animo umano, e l’indifferenza, e la mancanza d’ogni passione, è noia, la quale è pur passione. Ora che vuol dire che il vivente, sempre che non gode né soffre, non può fare che non s’annoi? Vuol dire ch’è non può mai fare ch’è desideri la felicità, cioè il piacere e il godimento. Questo desiderio, quando e’ non è né soddisfatto, né dirittamente contrariato dall’opposto del godimento, è noia. La noia è il desiderio della felicità, lasciato p.così dire puro (Zibaldone, 17 ott 1823)

Pensieri - LXVIII
La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall'esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.

A se stesso (1833)

Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera.

E l’infinita vanità del tutto.


Charles Baudelaire, Les Fleurs du Mal, 1857

Spleen

Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle
Sur l'esprit gémissant en proie aux longs ennuis,
Et que de l'horizon embrassant tout le cercle
Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits;

Quand la terre est changée en un cachot humide,
Où l'Espérance, comme une chauve-souris,
S'en va battant les murs de son aile timide
Et se cognant la tête à des plafonds pourris;

Quand la pluie étalant ses immenses traînées
D'une vaste prison imite les barreaux,
Et qu'un peuple muet d'infâmes araignées
Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,

Des cloches tout à coup sautent avec furie
Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,
Ainsi que des esprits errants et sans patrie
Qui se mettent à geindre opiniâtrément.

- Et de longs corbillards, sans tambours ni musique,
Défilent lentement dans mon âme; l'Espoir,
Vaincu, pleure, et l'Angoisse atroce, despotique,
Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.


Spleen

Je suis comme le roi d’un pays pluvieux,
Riche, mais impuissant, jeune et pourtant très-vieux,
Qui, de ses précepteurs méprisant les courbettes,
S’ennuie avec ses chiens comme avec d’autres bêtes.
Rien ne peut l’égayer, ni gibier, ni faucon,
Ni son peuple mourant en face du balcon.
Du bouffon favori la grotesque ballade
Ne distrait plus le front de ce cruel malade ;
Son lit fleurdelisé se transforme en tombeau,
Et les dames d’atour, pour qui tout prince est beau,
Ne savent plus trouver d’impudique toilette
Pour tirer un souris de ce jeune squelette.
Le savant qui lui fait de l’or n’a jamais pu
De son être extirper l’élément corrompu,
Et dans ces bains de sang qui des Romains nous viennent,
Et dont sur leurs vieux jours les puissants se souviennent,
Il n’a su réchauffer ce cadavre hébété
Où coule au lieu de sang l’eau verte du Léthé.

FRANCO RELLA,MITI E FIGURE DEL MODERNO; Feltrinelli 93, pp. 71-73
Baudelaire ha combattuto una battaglia aspra e continua contro la "brutale dittatura" del tempo, contro "il giocatore avido" che vince ogni partita. "Il tempo mangia la vita", inghiotte "minuto dopo minuto, come la neve immensa un corpo irrigidito". Baudelaire "come un angelo imprudente viaggiatore" che è mosso "dall'amore del difforme", è penetrato in questo territorio gelido e bianco, come in un "incubo enorme, senza fondo", "come in un luogo pieno di rettili", alla ricerca della "luce", di "una chiave". Ma egli inon ha trovato altro che "nitidi emblemi, il quadro perfetto/di un destino irredimibile". Ha trovato le allegorie del "moderno" che spiavano con sguardi familiari e inquietanti da ogni andito di Parigi, da ogni portone e da ogni vetrina, in cui con la merce si esibiva e si celebrava il rito dell'effimero. L'orologio è uno di questi emblemi: figura di un "dio sinistro, spaventoso e impossibile", che indica l'attrazione irresistibile dell'abisso assetato, mentre la clessidra si svuota.
"Urtato dalle gomitate della folla" Baudelaire si sente ormai, in questo viaggio, come "un uomo spossato, che veda dietro di sé negli anni profondi solo delusione e amarezza, e, davanti, solo una tempesta che nulla racchiude di nuovo: né insegnamento né dolore". E' il mondo che finisce, che non ha ragioni per esistere ulteriormente. Ed è in questo finire che "ad ogni minuto siamo schiacciati dall'idea e dalla sensazione del tempo". E non c'è che un mezzo "per sfuggire a questo incubo, per dimenticarlo".
Se il tempo nonpuò essere "redento" allora è necessario "perdere il tempo", consumarlo attraverso il lavoro o il piacere. Ed è per questo che il dandy e il lavoratore asservito al tempo della macchina sono due figure complementari: figure del tempo perduto, che abitano appunto la Parigi capitale del XIX secolo, la capitale del moderno: Ebetudine del lavoro asservito, il tempo "molle" del dandy, l'ebberezza "di vino, virtù o poesia" per perdere il tempo o almeno alleggerire "il suo orrido fardello".
In realtà Baudelaire ha fatto anche il tentativo, nella sua disperata lotta contro il tempo. di redimerlo, o almeno di salvarne un frammento attraverso l'esperienza dello choc, dell'immagine improvvisa che balena nell'attimo come un'enigma di felicità, Ma lo choc, nel momento stesso in cui sembra consegnarci un'immagine sottratta ai decreti del tempo, ci rivela anche che la nostra coscienza è divisa e "decade dalla sua apparente generalità esibendosi come parte". Per esempio lo choc dell'incontro con una passante colpisce il poeta all'improvviso, lo lascia "crispé comme un extravagant". E' l'attimo immenso, folle, ma esso non è che "un lampo ... poi la notte". Questa "bellezza è fuggitiva", ormai consegnata a un "troppo tardi! Forse mai!".
Baudelaire cerca di fissare queste sensazioni, questa esperienza dell'attimo dello choc, per esempio nell'odore di una donna, della sua chioma, del suo seno". Queste "analogie" gli rievocheranno "l'azzurro del cielo immenso e circolare", o "un porto pieno di fiamme e navi". Il poeta si fa archeologo della memoria. Scava nelle "catacombe del passato" dove l'individuo, ma anche l'umanità intera, "raccoglie tutta la sua vita". "Ho più ricordi che se avessi mille anni". ma questa memoria è una dannazione perché rende il soggetto "un cimitero aborrito dalla luna". Il ricordo diventa "una reliquia secolarizzata". In esso, come ha osservato Benjamin, " si deposita la crescente autoestraniazione dell'uomo che cataloga il suo passato come un morto possesso (...). La reliquia deriva dal cadavere, il "ricordo" dall'esperienza defunta, che si definisce eufemisticamente, "esperienza vissuta". Montale, In limine agli Ossi di Seppia, concludendo questa parabola baudelairiana, parla di "un morto viluppo di memorie" che "orto non era, ma reliquiario".
La fissazione feticistica sui capelli di una donna, sul profumo di una capigliatura, non è che il gesto di chi colleziona le proprie esperienze e le proprie sensazioni. Ma il collezionismo si svela come un'ansia di totalità sempre frustrata. I frammenti del passato qui si allineano irrigiditi, svelando la loro natura irrimediabilmente sostitutiva e illusoriamente consolatoria. Sono i segni di un'assenza che non ha redenzione. Il mondo in cui abita il collezionista è un mondo in cui "anche la primavera ha perduto il suo odore". E' il mondo grigio dello spleen e della malinconia.
In questo mondo non c'è nemmeno più posibilità di parola. Non c'è trasmissione o comunicazione possibile, ma solo complicità: "Tu, ipocrita lettore, mio simile, mio fratello!". Baudelaire ha descritto questo passaggio con un'immagine folgorante e definitiva: "Sono come il re di un paese piovoso/ricco, ma impotente; giovane e tuttavia vecchissimo". Re di un mondo grigio e piovoso, sede di un potere inutile, quello della molteplicità delle memorie morte, in cui si abita vecchissimi, prossimi alla fine: "Si dice che ho trent'anni; ma se ho vissuto tre minuti in ogni minuto ...".


Lettura di “À une passante” di Charles Baudelaire (“Les Fleurs du Mal”, XCIII) di Umberto Fiori  (Dal blog "le parole e le cose)



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