02/10/09

Mary Shelley, Frankenstein o il Prometo moderno


L'evento capitale della cultura romantica, anzi della coscienza moderna, fu la centralità e la sovranità che il soggetto assunse nel campo dell' esperienza fino al punto di diventare la fonte di ogni realtà e di ogni valore. Senza più norma o limite, né fuori né dentro di sé, l' io si sostituì a Dio, di cui acquisì o imitò i poteri, a incominciare da quello della creazione.
Tale prometeismo del soggetto è anche la novità che, innestandosi nella tradizione settecentesca da un lato del romanzo gotico, dall' altro dello sperimentalismo scientifico, caratterizza Frankenstein, il romanzo ideato da una geniale diciannovenne, Mary Godwin Shelley, figlia del filosofo radicale William Godwin e della scrittrice femminista Mary Wollstonecraft.
Frankenstein, capostipite del genere fantascientifico, nacque nel 1816 da una gara narrativa intrapresa in Svizzera con Byron e con Shelley per ingannare la noia di un' estate inclemente e apparve nel 1818 con una prefazione di Shelley stesso (nel frattempo divenuto marito di Mary): ebbe grande successo, che fu non solo letterario, ma anche teatrale, prima di diventare cinematografico.
Articolato su tre diversi piani narrativi, il primo dei quali è concepito in forma epistolare, il romanzo racconta come un giovane ginevrino, Victor Frankenstein, amante della filosofia naturale e desideroso di gloria, dopo varie ricerche nel campo della chimica, dell' anatomia, dell' elettricità e del galvanismo condotte presso l' università di Ingolstadt, giunga a scoprire la causa della generazione e della vita. Attraverso operazioni lasciate inevitabilmente all' immaginazione del lettore, Frankenstein crea nel suo laboratorio segreto un uomo artificiale, un «mostro» dai sentimenti miti ma dall' aspetto ripugnante, la cui vista è intollerabile al suo stesso creatore, subito pentito del proprio infausto operato.
Il mostro, plausibilmente innominato nel romanzo, ripercorre con lena tutte le tappe dello sviluppo dell' umanità, a incominciare dall' apprendimento del linguaggio e dalla scoperta del fuoco, per adattarsi all' ambiente sconosciuto nel quale si è trovato a esistere. Ma resta un figlio del nulla, solitario e infelice: bisognoso fino allo spasimo della compagnia degli esseri umani, viene invece, invariabilmente, fuggito e respinto da tutti con orrore. Egli muta allora la sua benignità in un odio furioso contro l' umanità, in particolare contro Frankenstein: dapprima ne uccide il fratello e poi manda sul patibolo la buona domestica ingiustamente incolpata del delitto. Impone inoltre a Frankenstein di costruirgli una compagna con la quale poter almeno dividere l' esistenza, secondo un' invenzione che è con ogni evidenza una parodia del racconto biblico della creazione di Eva. Frankenstein dapprima rifiuta terrorizzato; in un secondo momento, impietosito dalle argomentazioni del mostro, accetta e incomincia la costruzione di una femmina; ma alla fine, sopraffatto dal disgusto, interrompe e abbandona l' opera. Si scatena allora la vendetta già minacciata dal mostro che, strangolato il migliore amico di Frankenstein, uccide la fanciulla amata dallo scienziato proprio nel giorno in cui i due si sono uniti in matrimonio.
Compiuto l' ultimo crimine, il mostro fugge, inseguito da Frankenstein fino ai ghiacci del Polo Nord: qui lo scienziato, naufrago e assiderato, viene tratto in salvo sulla nave di un esploratore inglese al quale, prima di morire, racconta la propria storia. Allo sventurato mostro, dopo che ha visitato la salma del suo creatore, non resta altro che distruggersi.
Nonostante qualche ingenuità e qualche forzatura, il romanzo di Mary Shelley non solo attira, ma sorprende lo stesso lettore di oggi. All' originalità dell' invenzione, al tentativo di mostrare il mondo attraverso occhi extra-umani, alle efficaci descrizioni naturalistiche e paesaggistiche improntate al sublime romantico e corrispondenti all' esperienza autobiografica dell' autrice, alla limpidità e all' immediatezza dello stile si deve infatti aggiungere una capacità di anticipare i tempi che non sarebbe esagerato definire profetica. È difficile non pensare all' ingegneria genetica, ai misfatti che essa compie o promette generando esseri senza identità e senza storia, quando il mostro di Frankenstein riflette: «Ma dov' erano i miei amici e i miei parenti? Nessun padre aveva vegliato sui miei primi anni, nessuna madre mi aveva benedetto con i suoi sorrisi e le sue carezze; o, se l' avevano fatto, tutta la mia vita passata era un punto oscuro, un vuoto in cui non distinguevo nulla».
Il libro, il cui titolo completo suona Frankenstein, or the Modern Prometheus, è una rappresentazione partecipe, ma anche una condanna esplicita, della ubris scientifica. Lo è sul piano narrativo, nella nera e luttuosa sequenza degli effetti della scoperta di Frankenstein. Lo è nelle riflessioni o dichiarazioni che contiene: «Imparate da me, se non dalle mie raccomandazioni, almeno dal mio esempio, quanto pericoloso sia l' acquisto della scienza» dice Frankenstein, riprendendo u na saggezza millenaria, pagana non meno che biblica. E ancora, poco prima di morire, dunque in una sorta di testamento ideale: «Cercate la felicità nella quiete ed evitate l' ambizione, anche se si tratta solo di quella apparentemente innocente di distinguervi nella scienza e nelle scoperte». D' altronde, il mostro stesso desidera alla fine ridursi in cenere perché i suoi resti non siano di aiuto a «qualche altro disgraziato curioso e sacrilego» che voglia creare un essere simile a lui. Che l' utopia della scienza finisca in tragedia è un' ammissione alla quale erano costretti anche i più orgogliosi esponenti della ribellione romantica.
[dal Corriere della Sera, 28/10/2002]
• LA STRANA STORIA DELLA SCRITTRICE NOIR E DEL POETA RIBELLE
S' incontrano nel salotto culturale del padre di Mary e scocca la scintilla fatale. Solo due anni dopo riusciranno a sposarsi .Uno degli amori più celebri, più appassionati e più dissennati del Romanticismo. Durante le loro peregrinazioni si concentrano eventi che una vita intera conterrebbe a stento
di ELISABETTA RASY

Di tutti i problemi che assillavano la sua incipiente vecchiaia - una moglie arcigna, due figliastre lunatiche, gli acciacchi e i soldi, la latitanza maligna e tenace dei soldi - tra tutti questi detestabili guai che attentavano alla sua tempra di filosofo spregiudicato quanto austero nelle passioni, sua figlia Mary non aveva un posto trascurabile.
William Godwin era preoccupato: non appena adolescente la ragazzina aveva cominciato a mostrarsi straordinariamente audace, imperiosa e troppo attiva di mente. E, peggio, dotata di una determinazione invincibile in tutto ciò che intraprendeva. Godwin allo studio della natura umana, della fisiologia sociale, delle contraddizioni della legge aveva dedicato tutto il suo talento. Persino un matrimonio, quello, appunto, con la madre della piccola Mary, una donna d' eccezione, pensatrice come lui, come lui convinta che le convenzioni andassero guardate con una impietosa lente d' ingrandimento. Ma la madre, l' altra Mary, la famosa Wollstonecraft autrice della «Rivendicazione dei diritti delle donne», era morta dandola alla luce tredici anni prima, sul finire del secolo tumultuoso, quel diciottesimo secolo delle rivoluzioni e dei lumi.
E lui quest' orfana ribelle non sapeva come tenerla a bada: per questo la spedì via, lontana dalla matrigna che detestava, dalla petulante sorellastra Jane figlia della seconda signora Goodwin e da Fanny, l' illegittima della prima moglie, malinconica e indolente. Lontana anche da quei poeti, Coleridge per esempio, che frequentavano casa sua e le infiammavano la testa. Ma quando, dopo il soggiorno lontano che avrebbe dovuto smussarne il carattere, la sedicenne Mary tornò a Londra, Godwin si accorse ben presto che sua figlia non era affatto cambiata, anzi.
Mentre la figlia ostinata veniva allontanata, un giovanotto appena ventenne, fervente ammiratore di «Inchiesta sulla giustizia politica», l' opera più importante di William Godwin, gli si era dichiarato discepolo in una lettera e aveva ottenuto il permesso di frequentarlo. L' anno prima, il 1811, per aver aver scritto un libello intitolato «Necessità dell' ateismo», il ragazzo era stato cacciato dallo University College di Oxford. Suo padre, Sir Timothy Shelley, si era infuriato - del resto detestava non solo i libelli ma anche i romanzi e i poemi che il primogenito Percy Bysshe si ostinava a scrivere da quando aveva dieci anni. E tanto più furioso era diventato quando quel figlio che seguiva i principi libertari di Godwin e Tom Paine, dopo averla messa incinta, aveva sposato una sedicenne, Harriet Westbrook.
Due padri in ambasce, due figli ribelli e ostinati: questa la premessa di uno degli amori più celebri, più appassionati e più dissennati del Romanticismo europeo. Perché quando, nel 1814, Mary tornata a casa incontrò Percy nel salotto del padre tra i due scoppiò una scintilla fatale. Il poeta se ne rese conto immediatamente, come scrisse qualche tempo dopo a un amico: «In giugno venni a Londra con Godwin... Lì incontrai sua figlia Mary. L' originalità e la grazia della personalità di Mary apparivano dalle sue stesse movenze e dal tono della sua voce. L' irresistibile impetuosità e la sublimità dei suoi sentimenti si manifestavano nei suoi gesti e nel suo aspetto. Com' era persuasivo e com' era patetico il suo sorriso!... In breve tempo concepii un' ardente passione di possedere questo tesoro inestimabile. Nella mia mente questo sentimento assunse una varietà di forme, celai a me stesso la vera natura della mia affezione. Mi sforzai di celarla anche a Mary, ma senza successo».
Che Shelley, uomo di grandi entusiasmi e completamente privo di esitazioni, si sforzasse di tener celata la sua passione alla ragazza è piuttosto dubbio, se prima della fine di quel mese di giugno i due diventarono amanti. Probabilmente, invece, si sforzarono entrambi di tener celato tanto sconveniente amore agli occhi della moglie di lui e del nutrito gruppo familiare di lei. Ma anche qui l' insuccesso fu totale. Tutti se ne accorsero. Godwin si rivolse con parole di fuoco al discepolo: «Non avrei mai creduto che avresti sacrificato la tua personalità e utilità, la felicità di una moglie meritevole e innocente e la reputazione immacolata della mia giovane figlia all' impulso violento della passione».
Shelley non se ne dette per inteso, ma Mary alla quale Harriet, già madre di una bambina e incinta del secondo figlio, si era rivolta direttamente con la disperazione di una donna tradita, era pronta a rinunciare. Fu allora che il poeta capì che per realizzare il loro amore non restava che una strada: la fuga.
Fu difficile convincere la piccola Godwin, non ancora diciassettenne, a un gesto così estremo? Forse Mary riluttava. Ma quando Shelley si presentò da lei con una dose di laudano e una pistola dichiarandosi pronto al suicidio se lei non avesse acconsentito, fu abbastanza veloce nel mettere da parte le sue esitazioni, l' amore filiale, la reputazione, gli scrupoli morali. Fu stabilita una data, il 28 di luglio; fu trovata una complice, la sorellastra Jane.
Quello stesso 28 di luglio i due amanti decisero di tenere un diario comune. Shelley scrisse la prima pagina: «La notte precedente questa mattina, essendo già stato tutto deciso, ho ordinato che una carrozza fosse pronta per le quattro. Vegliai fino a quando l' illuminazione e le stelle impallidirono. Finalmente arrivarono le quattro... Andai, la vidi, lei venne a me... Alcuni preparativi dovevano essere ultimati e lei mi lasciò per un breve lasso di tempo. Come mi sembrò spaventoso quel tempo; sembrava che ci gingillassimo con la vita e con la speranza; passarono alcuni minuti e lei fu nelle mie braccia. Eravamo salvi, eravamo sulla strada per Dover».
La fuga si concluse solo due anni dopo, il 30 dicembre 1816, quando Mary e Shelley si sposarono. In questo lasso di tempo, speso in peregrinazioni forsennate tra l' Inghilterra e il continente, si concentrano eventi che un' intera vita conterrebbe a stento: Mary ha due figli di cui la prima muore; Harriett partorisce il figlio di Percy; la sorellastra Jane diventa l' amante di Byron; Mary scrive il libro che le darà eterna fama, «Frankenstein»; Fanny, l' altra sorellastra si suicida; poco dopo anche Harriett si suicida; Shelley inseguito dai debitori e dalla furia del padre perde ignominiosamente la custodia dei figli del primo matrimonio.
Solo il filosofo Godwin sembra non perdere la flemma del pensatore incallito. Quando finalmente Mary diventa la signora Shelley, scrive al fratello: «Non so se ti ricordi la miscellaneità della mia famiglia, ma almeno forse ricorderai che ho soltanto due figli miei: una figlia dalla mia prima moglie e un figlio dalla mia moglie attuale... La notizia che ti debbo riferire è che ho accompagnato la ragazza all' altare un po' di tempo fa. Suo marito è il figlio maggiore di Sir Timothy Shelley di Field Park, nella contea del Sussex, Baronetto. Così, secondo le volgari idee del mondo, si è sposata bene e nutro grande speranza che il giovane sia per lei un buon marito. Ti chiederai, penso, come possa una fanciulla di pochi mezzi fare un così buon matrimonio, ma questa è la vita».
[dal Corriere della Sera, 22/07/2004]
• IL DOTTOR FRANKENSTEIN E' VERAMENTE ESISTITO. LA SHELLEY SI ISPIRO' A UN ALCHIMISTA TEDESCO

Londra sarebbe stato un alchimista tedesco a "suggerire" a Mary Shelley la creazione di Frankenstein, uno dei personaggi piu' famosi della letteratura "neogotica". Lo "scienziato pazzo" che avrebbe fatto da modello alla scrittrice inglese sarebbe Konrad Dippel, vissuto tra il 1673 e il 1734. Lo sostiene Radu Florescu, docente di storia est europea al Boston College. In un saggio che sara' pubblicato ai primi di ottobre con il titolo In search of Frankenstein, Florescu si dice convinto che Mary Shelley venne a conoscenza delle storie e leggende attorno a Dippel durante un viaggio del 1814 in Germania, assieme al futuro marito, il poeta Percy Bysshe Shelley. Dalle note della scrittrice ad un successivo libro di viaggi (History of a six week' s tour), il professore americano ha scoperto che gli Shelley visitarono anche un castello vicino a Mannheim, noto come "Castello Frankenstein", dove Dippel era nato. "Al castello . ha indicato il professor Florescu . i visitatori venivano informati sulle storie riguardanti il misterioso Dippel". La scrittrice, morta nel 1851, disse che in lei il personaggio di Frankenstein aveva preso improvvisamente corpo nel 1816 in seguito a un incubo serale, mentre con Shelley e un altro famoso poeta . Lord Byron . soggiornava sul lago di Ginevra, ma a detta dell' esperto di storia europea si tratta di una finzione romantica: i "temi e pensieri" sullo scienziato che da' vita a un mostruoso umanoide artificiale sarebbero gia' stati inculcati in lei dal viaggio di due anni prima in Germania. Anche se adesso e' conosciuto soltanto dagli esperti, Konrad Dippel ebbe in vita una certa notorieta' per le sue oscure, talvolta macabre ricerche su come carpire il segreto dell' eternita' e produrre oro partendo da materiali vili. Persino Caterina II, zarina di tutte le Russie, lo invito' a corte per sapere di piu' dei suoi esperimenti che in apparenza comportavano anche il furto e la cottura di cadaveri.
[dal Corriere della Sera, 23/09/1996]

25/09/09

Ugo Foscolo

Progetto Ugo Foscolo (TUTTE LE OPERE e alcune pagine critiche; in particolare vedi il saggio di Tellini sul romanzo) 


Gadda su Foscolo:

MAPPE: 1)Foscolo alla Musa 2) Foscolo Ortis

"Storia di un suicidio annunciato"- Enzo Siciliano

Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo costituiscono l' incunabolo del romanzo italiano: dico incunabolo in senso etimologico, un primo modello a stampa riprodotto con forte vicinanza al manoscritto originale. Nelle pagine del romanzo, un fascicolo di lettere intercalate da raccordi narrativi stilati dalla mano del loro destinatario, lasciano avvertire l' odore dell' inchiostro fresco, della ceralacca che sigillava le buste, ancora ci sono tracce di carta spiegazzata dalla mano sbrigativa del corriere di posta. Si avverte l' odor di lacrime dello sventurato ragazzo che le scriveva di furia preparandosi a morire. Jacopo si uccide - e il romanzo è la storia di un suicidio annunciato - come può accadere all' uscita dall' adolescenza, per un eccesso di vitalità, perché il mondo non risponde alle tue esigenze, perché si mostra ostile ai tuoi desideri, e sono desideri che oltrepassano i tuoi sogni. Al liceo ci dicevano che Jacopo si uccide per amore, e che il suicidio per amore era la malattia del secolo: vedi come questa malattia era stata descritta con analitica precisione nel Werther di Goethe, testo esemplare per il nostro Foscolo. Il fatto è che nello Jacopo Ortis (che ora Repubblica propone con una scelta di lettere a cura di Anna Modena) quel male non è proiettato come un male astratto. Foscolo era della razza dei Kleist, dei Puskin: era coetaneo del Beethoven che componeva e pubblicava i Quartetti per archi op. 18 fra il 1798 e il 1801. Ed è per questo, fuori anche dall' idea che il racconto, dettato dalle passioni giovanili del poeta dei Sepolcri, sia del Werther una pedissequa imitazione, è per questo, poiché quel male non vi è proiettato come astratto, che esso è l' incunabolo del romanzo italiano, e sta alla radice della nostra tradizione narrativa. Quel male è visto da Foscolo come un concreto risultato della Storia. Si incrocia, nell' infelicità esistenziale di Jacopo, nel suo bisogno di un Dio che delude pure se se ne avverte la vicinanza, alla fortissima delusione politica, all' impotenza feroce provata di fronte alla "svendita" di Venezia agli austriaci da parte di Napoleone - , liquidazione dell' estremo residuo di libertà italiana, eco di una lontana realtà d' autonomia che nei secoli si era conservata sotto specie di debole fiammella. Arrivò Napoleone con le sue promesse di libertà fraternità uguaglianza per tutti gli italiani; ma erano promesse di fatto pietrificate dallo sguardo meduseo della ragion di stato. E Venezia venne scambiata per uno straccio di pace, dimenticata di lì a poco con noncuranza. Il famosissimo incipit del romanzo, scandito quasi in versi sciolti - «Il sacrificio della nostra patria è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e le nostre infamie» - , che non appare nelle prime versioni a stampa del libro, quelle bolognesi pirata, contraffatte da aggiunte e correzioni editoriali che potessero renderlo meno indigesto alla censura, è presente nell' edizione 1802 voluta e riveduta dall' autore, quella che inviò a Goethe dopo avergli scritto una lettera datata 16 gennaio: «Riceverete il primo volumetto di una mia operetta a cui forse diè origine il vostro Werther. Duolmi che voi non vediate se non i primi atti, per così dire, della tragedia; gli ultimi sono più veri e più caldi. Ho dipinto me stesso, le mie passioni, e i miei tempi sotto il nome di un mio amico ammazzatosi a Padova. Non ho nissun merito nell' invenzione avendo tratto tutto dal vero; i miei concittadini pregiano il mio stile in un' opera dove per mancanza di modelli ho dovuto farmi una lingua mia propria...». Il vero Jacopo Ortis, studente all' università di Padova - frequentata anche da Foscolo - , si era ucciso con due pugnalate al petto, senza lasciar parola per giustificare agli amici, ai parenti un gesto tanto estremo. Quel mistero, quel coraggio furono di ispirazione per lo scrittore. Un possibile romanzo italiano aveva esempi lontani, in Boccaccio e nei novellieri rinascimentali - erano narrazioni di commedia, di vita arguta. Poi, con il loro magistero sulla realtà effettuale, per un romanzo possibile, si affacciavano padrini le ombre dei grandi storici, Machiavelli e Guicciardini. Presso Foscolo, c' era, ravvicinato, l' esempio di Alfieri con l' ardimento tragico della sua esistenza. Alfieri aveva scritto la Vita proprio negli anni in cui Foscolo metteva al segno il suo Ortis. La Vita fu pubblicata postuma nel 1804, quando già l' Ortis conosceva il successo. I due libri costituiscono i primi palinsesti della narrativa moderna. E Jacopo, in questo quadro, è personaggio chiave per la sua, a detta di uno scrittore d' oggi, Aurelio Picca, antica e maschia inattualità. Abbandonato all' istinto, alle incertezze delle illuminazioni interiori, il suo male di vivere si trasforma in un eccesso inarginabile per la vitalità politica e civile che l' investe. La passione patria e la passione per Teresa, la donna che ama e che gli interessi pratici di una famiglia, dentro cui la politica si mescola, gli vietano, lo portano a commettere il gesto estremo. Ma il travaglio non è così lineare: bolle in lui la vita complessa, ardente, colma della corporeità e sensualità che erano del suo autore, una vita sempre incerta e unicamente guidata dalla luce accecante di una vocazione. Foscolo ebbe dalla sua la bellezza incantevole e bruciante della giovinezza. Fra i nostri classici, forse con Nievo che gli era devoto, è quello nel quale - leggilo nel magma adamantino del suo Epistolario - avvertiamo quanto mai caldo l' odore scomposto della vita, proprio l' odore e non il profumo. Incertezze e contraddizioni esistenziali lo segnano. Ufficiale dell' esercito napoleonico, ferito in battaglia, l' amore per la libertà ne fece un perenne disobbediente inseguito da calunnie; finché decise di abbandonare l' Italia e rifugiarsi a Londra contraffacendosi, sempre in caccia di romanzo, nel sembiante del Didimo Chierico di Sterne. Ma la sua sensibilità, la sua intelligenza, la chiarezza della sua espressione lo avevano spinto a disegnare l' incunabolo che ho detto. Pregi e difetti del nostro romanzo sono tutti assiepati in Jacopo Ortis: una non comune forza lirica di scrittura, e in questa nessuna costrizione a sintassi precostituite. I personaggi vi hanno spessore perché messi al fuoco della realtà storica: la loro sofferenza e la loro tragedia è segnata dalle contingenze d' un travaglio dove tutti ebbero sorte di vittime. La bufera delle guerre napoleoniche è più che un telone di sfondo: rende invece tutto incerto, piagato e sofferente. Da un lato, l' altezza verticale di sentimenti che non hanno nome; dall' altro, la vertigine di chi vive quei sentimenti nel sentirsi imprigionato dai fatti. Dal conflitto è nato appunto un romanzo rimasto tuttora esemplare. - ENZO SICILIANO

QUI analisi retorica molto precisa:
http://www.fareletteratura.it/2012/01/20/analisi-del-testo-alla-sera-di-ugo-foscolo/
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Tra i sonetti del Foscolo, il sonetto Alla sera ha un’importanza fondamentale non solo per i sonetti ma anche per tutta l’opera di Ugo Foscolo. Infatti il sonetto Alla sera si pone come superamento delle Ultime lettere di Jacopo Ortis e come anticipazione dei Sepolcri.
                                        Alla Sera 
Foscolo, Alla Sera, sonettiForse perché della fatal quïete
Tu sei l'imago a me sì cara vieni
O sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,

E quando dal nevoso aere inquïete
Tenebre e lunghe all'universo meni
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
                                       che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
                                      questo reo tempo, e van con lui le torme

                                     Delle cure onde meco egli si strugge;
                                     e mentre io guardo la tua pace, dorme
                                    Quello spirto guerrier ch'entro mi rugge. 


28/03/09

BARCELLONA



http://www.casabatllo.es/

www.lapedreraeducacio.org/flash.htm

http://www.salvador-dali.org/

www.llibreriasurrealista.net



Dante

Purgatorio

CANTO XI, vv. 1-117;CANTO XXI vv. 1-136 (da v. 40-66 in sintesi);

CANTO XXII v. 1-75 (da v. 76-93 no),vv. 94-154;CANTO XXIII vv. 22-48 (collegamento tra Forese e Nella al v.87);CANTO XXIV vv. 49-69 (v 1-48 in sintesi); CANTO XXVI; CANTO XXXIII vv. 136-145;


Vittorio Sermonti:
«Uno dei caratteri più emozionanti del Purgatorio sta nel fatto che ha una durata fatta dell' alternarsi dei giorni e delle notti e che questa durata è in qualche modo un negativo della vita. Sospesi alla durata della penitenza, gli spiriti del Purgatorio possono raccontare a Dante che cosa succede a morire. E usano una tenerezza un po' spaurita, un po' adontata, come se ancora patissero lo scandalo di essere morti. Mai, io credo, si sono conosciuti dei morti così vivi come questi personaggi, che sono psicologicamente affini a Dante, e molte volte evocano insieme a lui un passato prossimo». Infatti lungo le balze del Purgatorio Dante incontra molti dei suoi amici di un tempo, molti, come lui, poeti. Che ruolo hanno nel suo cammino?
«Danno una presenza penitenziale all' esperienza dello scrivere poesia. Che è insieme iniziale, transitoria e definitiva, perché l' aver scritto poesia nelle modalità adottate in passato da Dante si risolve e si realizza nella scrittura del poema sacro. Cacciata dalla finestra, insomma, la poesia rientra dalla porta. E cacciarla dalla finestra è per Dante un' esperienza complicatissima e una straordinaria emozione. L' incontro con Forese Donati è cruciale proprio per questo, perché coniuga amicizia, connivenza e esercizio della poesia».
Come cambia il pellegrino Dante nel passaggio dall' Inferno al Purgatorio?
«L' esperienza che Dante fa durante la sua salita è l' esperienza del passaggio tra due eternità: quella insonne dei dannati e quella felice dei beati. Le emozioni di Dante che sbuca sulla spiaggia del Purgatorio la mattina di Pasqua sono proprio le emozioni di chi ha attraversato l' inferno e riscopre qualcosa che ha la violenza e l' evidenza della vita. Questa situazione che è insieme rimpianto della vita, e del corpo, e speranza dell' eternità e del recupero del corpo, non ha uguali nella storia delle letterature».
"(...) Bisogna abbandonarsi, sentire il ronzio, la musica del senso»

Giovanna Nuvoli, Note su Dante personaggio nella Divina Commedia

Paradiso

CANTO I; CANTO II vv. 1-18;CANTO XI; CANTO XII; CANTO XXXIII.


Giuseppe Ledda, La metamorfosi della visione

14/03/09

PASTO FUTURISTA

Due pasti futuristi
Il 12 gennaio 1910 i futuristi sono a Trieste: performance nella prima serata propagandista del movimento, poi tutti al Politeama Rossetti per lo sperimentale cenone sovvertitore di gusti e di abitudini, che cominciava con il dolce e finiva con l'antipasto. Il menu è di Mario Nordio (vd. Guido Botteri e Vito Levi, Il politeama rossetti 1878-1978: un secolo di vita triestina nelle cronache del teatro, Trieste, Editoriale Libraria, 1978, p. 215): "caffè, dolci memorie frappes, frutta dell'avvenire, marmellata di gloriosi defunti, arrosto di mummia con fegatini di professori, insalata archeologica, spezzatino di passato con piselli esplosivi in salsa storica, pesce del mar morto, grumi di sangue in brodo, antipasto di demolizioni, vermouth".
Ma il primo pranzo ufficiale futurista si tenne solo una ventina di anni dopo, l'8 marzo 1931 a Torino alla Taverna Santopalato (nome coniato dallo stesso Marinetti); la lista prevedeva (da: F.T. Marinetti e Fillìa, La cucina futurista, Milano, Longanesi & C., 1986, pp. 94-95):
1. Antipasto intuitivo
2. Brodo solare
3. Tutto riso con vino e birra
4. Aerovivanda tattile, con rumori ed odori
5. Ultravirile
6. Carneplastico
7. Paesaggio alimentare
8. Mare d'Italia
9. Insalata mediterranea
10. Pollofiat
11. Equatore + Polo Nord
12. Dolcelastico
13. Reticolati del cielo
14. Frutti di Italia (composizione simultanea)

20/02/09

Forme brevi e forme lunghe della narrazione

Vedi il saggio del critico Guido Guglielmi
Un'idea di racconto

e quello di Federico Pellizzi
Forme del racconto

01/02/09

La noia in Leopardi e in Baudelaire


-->G. Leopardi, Operette Morali : Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare
Genio: Come stai Torquato?

Tasso: Ben sai come si può stare in una prigione..

(…)

Genio: Che cosa è la noia?

Tasso: A me pare che la noia sia della materia dell’aria. Tutti gli intervalli della vita umana sono occupati dalla noia

Genio: e da poiché tutti i vostri diletti sono di materia simili ai ragnateli, tenuissima, radissima e trasparente; perch’io come l’aria in questi, così la noia penetra in quelli da ogni parte e li riempie.

Zibaldone

La noia corre sempre e immediatamente a riempiere tutti i vuoti che lasciano negli animi de’viventi il piacere e il dispiacere; il vuoto, cioè lo stato d’indifferenza e senza passione, non si dà in esso animo, come non si dava in antura secondo gli antichi. La noia è come l’aria quaggiù, la quale riempie tutti gl’intervalli degli altri oggetti, e corre subito a stare lè donde questi partono, se altri oggetti non gli rimpiazzano. O vogliamo dire che il vuoto stesso dell’animo umano, e l’indifferenza, e la mancanza d’ogni passione, è noia, la quale è pur passione. Ora che vuol dire che il vivente, sempre che non gode né soffre, non può fare che non s’annoi? Vuol dire ch’è non può mai fare ch’è desideri la felicità, cioè il piacere e il godimento. Questo desiderio, quando e’ non è né soddisfatto, né dirittamente contrariato dall’opposto del godimento, è noia. La noia è il desiderio della felicità, lasciato p.così dire puro (Zibaldone, 17 ott 1823)

Pensieri - LXVIII
La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall'esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.

A se stesso (1833)

Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera.

E l’infinita vanità del tutto.


Charles Baudelaire, Les Fleurs du Mal, 1857

Spleen

Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle
Sur l'esprit gémissant en proie aux longs ennuis,
Et que de l'horizon embrassant tout le cercle
Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits;

Quand la terre est changée en un cachot humide,
Où l'Espérance, comme une chauve-souris,
S'en va battant les murs de son aile timide
Et se cognant la tête à des plafonds pourris;

Quand la pluie étalant ses immenses traînées
D'une vaste prison imite les barreaux,
Et qu'un peuple muet d'infâmes araignées
Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,

Des cloches tout à coup sautent avec furie
Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,
Ainsi que des esprits errants et sans patrie
Qui se mettent à geindre opiniâtrément.

- Et de longs corbillards, sans tambours ni musique,
Défilent lentement dans mon âme; l'Espoir,
Vaincu, pleure, et l'Angoisse atroce, despotique,
Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.


Spleen

Je suis comme le roi d’un pays pluvieux,
Riche, mais impuissant, jeune et pourtant très-vieux,
Qui, de ses précepteurs méprisant les courbettes,
S’ennuie avec ses chiens comme avec d’autres bêtes.
Rien ne peut l’égayer, ni gibier, ni faucon,
Ni son peuple mourant en face du balcon.
Du bouffon favori la grotesque ballade
Ne distrait plus le front de ce cruel malade ;
Son lit fleurdelisé se transforme en tombeau,
Et les dames d’atour, pour qui tout prince est beau,
Ne savent plus trouver d’impudique toilette
Pour tirer un souris de ce jeune squelette.
Le savant qui lui fait de l’or n’a jamais pu
De son être extirper l’élément corrompu,
Et dans ces bains de sang qui des Romains nous viennent,
Et dont sur leurs vieux jours les puissants se souviennent,
Il n’a su réchauffer ce cadavre hébété
Où coule au lieu de sang l’eau verte du Léthé.

FRANCO RELLA,MITI E FIGURE DEL MODERNO; Feltrinelli 93, pp. 71-73
Baudelaire ha combattuto una battaglia aspra e continua contro la "brutale dittatura" del tempo, contro "il giocatore avido" che vince ogni partita. "Il tempo mangia la vita", inghiotte "minuto dopo minuto, come la neve immensa un corpo irrigidito". Baudelaire "come un angelo imprudente viaggiatore" che è mosso "dall'amore del difforme", è penetrato in questo territorio gelido e bianco, come in un "incubo enorme, senza fondo", "come in un luogo pieno di rettili", alla ricerca della "luce", di "una chiave". Ma egli inon ha trovato altro che "nitidi emblemi, il quadro perfetto/di un destino irredimibile". Ha trovato le allegorie del "moderno" che spiavano con sguardi familiari e inquietanti da ogni andito di Parigi, da ogni portone e da ogni vetrina, in cui con la merce si esibiva e si celebrava il rito dell'effimero. L'orologio è uno di questi emblemi: figura di un "dio sinistro, spaventoso e impossibile", che indica l'attrazione irresistibile dell'abisso assetato, mentre la clessidra si svuota.
"Urtato dalle gomitate della folla" Baudelaire si sente ormai, in questo viaggio, come "un uomo spossato, che veda dietro di sé negli anni profondi solo delusione e amarezza, e, davanti, solo una tempesta che nulla racchiude di nuovo: né insegnamento né dolore". E' il mondo che finisce, che non ha ragioni per esistere ulteriormente. Ed è in questo finire che "ad ogni minuto siamo schiacciati dall'idea e dalla sensazione del tempo". E non c'è che un mezzo "per sfuggire a questo incubo, per dimenticarlo".
Se il tempo nonpuò essere "redento" allora è necessario "perdere il tempo", consumarlo attraverso il lavoro o il piacere. Ed è per questo che il dandy e il lavoratore asservito al tempo della macchina sono due figure complementari: figure del tempo perduto, che abitano appunto la Parigi capitale del XIX secolo, la capitale del moderno: Ebetudine del lavoro asservito, il tempo "molle" del dandy, l'ebberezza "di vino, virtù o poesia" per perdere il tempo o almeno alleggerire "il suo orrido fardello".
In realtà Baudelaire ha fatto anche il tentativo, nella sua disperata lotta contro il tempo. di redimerlo, o almeno di salvarne un frammento attraverso l'esperienza dello choc, dell'immagine improvvisa che balena nell'attimo come un'enigma di felicità, Ma lo choc, nel momento stesso in cui sembra consegnarci un'immagine sottratta ai decreti del tempo, ci rivela anche che la nostra coscienza è divisa e "decade dalla sua apparente generalità esibendosi come parte". Per esempio lo choc dell'incontro con una passante colpisce il poeta all'improvviso, lo lascia "crispé comme un extravagant". E' l'attimo immenso, folle, ma esso non è che "un lampo ... poi la notte". Questa "bellezza è fuggitiva", ormai consegnata a un "troppo tardi! Forse mai!".
Baudelaire cerca di fissare queste sensazioni, questa esperienza dell'attimo dello choc, per esempio nell'odore di una donna, della sua chioma, del suo seno". Queste "analogie" gli rievocheranno "l'azzurro del cielo immenso e circolare", o "un porto pieno di fiamme e navi". Il poeta si fa archeologo della memoria. Scava nelle "catacombe del passato" dove l'individuo, ma anche l'umanità intera, "raccoglie tutta la sua vita". "Ho più ricordi che se avessi mille anni". ma questa memoria è una dannazione perché rende il soggetto "un cimitero aborrito dalla luna". Il ricordo diventa "una reliquia secolarizzata". In esso, come ha osservato Benjamin, " si deposita la crescente autoestraniazione dell'uomo che cataloga il suo passato come un morto possesso (...). La reliquia deriva dal cadavere, il "ricordo" dall'esperienza defunta, che si definisce eufemisticamente, "esperienza vissuta". Montale, In limine agli Ossi di Seppia, concludendo questa parabola baudelairiana, parla di "un morto viluppo di memorie" che "orto non era, ma reliquiario".
La fissazione feticistica sui capelli di una donna, sul profumo di una capigliatura, non è che il gesto di chi colleziona le proprie esperienze e le proprie sensazioni. Ma il collezionismo si svela come un'ansia di totalità sempre frustrata. I frammenti del passato qui si allineano irrigiditi, svelando la loro natura irrimediabilmente sostitutiva e illusoriamente consolatoria. Sono i segni di un'assenza che non ha redenzione. Il mondo in cui abita il collezionista è un mondo in cui "anche la primavera ha perduto il suo odore". E' il mondo grigio dello spleen e della malinconia.
In questo mondo non c'è nemmeno più posibilità di parola. Non c'è trasmissione o comunicazione possibile, ma solo complicità: "Tu, ipocrita lettore, mio simile, mio fratello!". Baudelaire ha descritto questo passaggio con un'immagine folgorante e definitiva: "Sono come il re di un paese piovoso/ricco, ma impotente; giovane e tuttavia vecchissimo". Re di un mondo grigio e piovoso, sede di un potere inutile, quello della molteplicità delle memorie morte, in cui si abita vecchissimi, prossimi alla fine: "Si dice che ho trent'anni; ma se ho vissuto tre minuti in ogni minuto ...".


Lettura di “À une passante” di Charles Baudelaire (“Les Fleurs du Mal”, XCIII) di Umberto Fiori  (Dal blog "le parole e le cose)



23/01/09

Beppe Sebaste su Edgar Allan Poe

Conoscenza e delirio, cioè letteratura. Per il bicentenario di Edgar Allan Poe

“Si potrà chiedere in che senso il delirio sia conoscenza: semplicemente, presupponendo che la realtà non sia reale, che anzi il concetto stesso di ‘realtà’ altro non sia che una bassa invenzione pedagogica, una minatoria falsificazione moralistica”. Sembra una frase di Philip K. Dick o un suo commentatore, ma è il nostro Giorgio Manganelli a proposito dei racconti di Edgar Allan Poe, “insondabili incunaboli della letteratura moderna”, capolavori di intelligenza e lucidità visionaria. Difficile dire di cosa la letteratura contemporanea (e non solo la letteratura) non sia debitrice verso Allan Poe. L’autore dei racconti del Grottesco e dell’Arabesco (così li titolò nel 1839) ha anticipato e scandagliato ogni futura direzione narrativa.
Nato a Boston nel 1809, morto quarant’anni dopo in un ospedale di Baltimora dopo un’esistenza dissipatissima e dark, la lungimiranza di Edgar Allan Poe viene dall’aver combinato insieme nella sua opera le opposte tendenze della sua epoca (che per molti versi è ancora la nostra): quel nuovo romanticismo che nei manuali viene chiamato “Decadentismo” (non a caso la sua opera fu tradotta da Baudelaire) e l’euforia razionalista e progressista di ciò che ancora i manuali chiamano “Positivismo”, ossia il metodo scientifico e il “mondo della tecnica”. Mezzo secolo prima di Freud l’americano Poe descrive l’ascesa e il trionfo della borghesia nelle grandi città, il suo apparente pieno controllo del mondo, e nello stesso tempo la sua impotenza di fronte all’emergere di angosce e paure incontrollabili. Inventò il genere forse più razionalista e ottimista, il romanzo poliziesco (suo è il detective Dupin, eroe de I delitti della rue Morgue e La lettera rubata, imitato da ogni successivo giallo a enigma; e suo è il primo “mistero della porta chiusa”), sapendo però che l’uso della ragione, il pensiero, altro non è che paura trasformata, paura che si è data un’attrezzatura metodica. E che può anche fallire.
Quando ero studente, e il mio professore più famoso era Umberto Eco, mi capitò di confrontarmi con lui in una dibattito al Festival del Giallo di Cattolica. Lui leggeva i gialli, sulla scorta del pragmatismo filosofico di Charles S. Peirce, che impresse nuovi sviluppi alla semiotica (in particolare allo studio dell’abduzione) come un modello di ragionevolezza induttiva. Gli esempi venivano in genere tratti da Sherlock Holmes, calco dell’investigatore Dupin inventato da Poe. Io leggevo gli stessi gialli come modello di ebbrezza, paragonando quel lasciarsi trasportare di cui è immagine la nuvola spinta dal vento, cioè il piacere di lasciarsi trasportare dal tono narrativo. Il piacere della letteratura, di cui fa parte “la sospensione dell’incredulità”, non cessa coi romanzi polizieschi, viene anzi rilanciato da essi, come imparai leggendo le lettere di Edgar Allan Poe al suo editore. La logica che affascina i lettori e li spinge a credere a una superiore intelligenza deduttiva dell’investigatore, scriveva Poe, non è che un effetto retorico, l’effetto di un “tono metodico”: “dov’è l’ingegnosità nel dipanare una matassa che voi stesso avete arruffato per il preciso scopo di dipanarla? Il lettore è indotto a confondere l’ingegnosità dell’immaginario Dupin con quella dello scrittore della novella” (lettera a Philip P. Cooke, 9 agosto 1846).
Edgar Allan Poe, che scrisse anche poesie, saggi di estetica e poetica, e una Filosofia della composizione, inventò sia i "Tales of Ratiocination "- “racconti di raziocinio”, tra cui appunto i primi gialli in assoluto – sia i “racconti di allucinazione”, dove reinventava il genere gotico e horror, come in Berenice o La caduta della casa Usher. Scrisse un romanzo “incompiuto” – Le avventure di Gordon Pym, che spacciò così efficacemente come storia vera da non avere successo proprio per questo. Scrisse un racconto come L’uomo della folla, primo affresco di quella solitudine urbana come estraneità e disincanto che popolerà la sociologia e il cinema. Ma sopratutto, tratto comune a ogni suo racconto, Poe inventò un nuovo tipo di eroe moderno, un eroe intellettuale che potremmo chiamare meglio ”percettivo”, un personaggio la cui caratteristica è una sviluppata facoltà di “attenzione”, e una vocazione a giocarsi il destino interpretando i dati delle sue percezioni – che si tratti degli arabeschi di un tappeto, di una macchia bianca nel gatto nero o di gocce d’acqua che scivolano su vetri. Le storie differiscono solo dall’esito delle loro interpretazioni: chi interpreta bene può trovare un tesoro (Lo scarabeo d’oro), chi interpreta male può perdere la vita (Il gatto nero) o arrivare all’horror di una follia assassina (Berenice). Come è stato osservato, tutti questi personaggi sono inizialmente liberi, liberi di pensare ciò che vogliono, ma non liberi di non pensare. Il loro destino è la logica, o meglio, l’interpretazione delle loro visioni. Già questo basterebbe a fare di Edgar Allan Poe il narratore antesignano della nostra alienazione culturale o delle nostre nevrosi, fino all’indiscernibilità di delirio e conoscenza cui accennava Manganelli, e da cui abbiamo preso le mosse.
Resta che i racconti di Edgar Allan Poe siano i più citati, usati e portati a esempio dalla filosofia, e non solo per la loro messa in scena del processo di pervenire alla verità (o all’errore). E’ forse grazie a Poe, al suo suggerimento di uno sconfinamento tra delirio e conoscenza, deriva e salvezza, che Jorge Luis Borges, nella sua catalogazione dei generi della letteratura fantastica, aggiunse la speculazione metafisica.
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Ma vedi anche:


Citati su Edgar Allan Poe (da Repubblica)

17/01/09

Albert Camus, Il mito di Sisifo

Gli dei avevano condannato Sisifo a far rotolare senza posa un macigno sino alla cima di una montagna, dalla quale la pietra ricadeva per azione del suo stesso peso. Essi avevano pensato, con una certa ragione, che non esiste punizione piú terribile del lavoro inutile e senza speranza.

Se si crede ad Omero, Sisifo era il più saggio e il più prudente dei mortali; ma, secondo un'altra tradizione, tuttavia, egli era incline al mestiere di brigante. lo non vedo in questo una contraddizione. Sono diverse le opinioni riguardanti le cause per le quali divenne l'inutile lavoratore degli inferi. Gli vengono rimproverate anzitutto alcune leggerezze commesse con gli dei, in quanto svelò i loro segreti. Egina, figlia di Asopo, era stata rapita da Giove. Il padre si sorprese della sparizione e se ne lagnò con Sisifo, il quale, essendo a conoscenza del rapimento, offerse ad Asopo di renderlo edotto, a condizione che questi donasse acqua alla cittadella di Corinto. Ai fulmini celesti, egli preferì la benedizione dell'acqua, e ne fu punito nell'inferno. Omero ci racconta pure che Sisifo aveva incatenato la Morte. Plutone, non potendo sopportare lo spettacolo del suo impero deserto e silenzioso, mandò il dio della guerra, che liberò la Morte dalle mani del suo vincitore. Si dice ancora che Sisifo, vicino a morire, volle imprudentemente aver una prova dell'amore di sua moglie, e le ordinò di gettare il suo corpo senza sepoltura nel mezzo della piazza Pubblica. Sisifo si ritrovò agli inferi, e là, irritato per un'obbedienza così contraria all'amore umano, ottenne da Plutone il permesso di ritornare sulla terra per castigare la moglie. Ma, quando ebbe visto di nuovo l'aspetto del mondo, ed ebbe gustato l'acqua e il sole, le pietre calde e il mare, non volle più ritornare nell'ombra infernale. 1 richiami, le collere, gli avvertimenti non valsero a nulla. Molti anni ancora egli visse davanti alla curva del golfo, di fronte al mare scintillante e ai sorrisi della terra. Fu necessaria una sentenza degli dei. Mercurio venne a ghermire l'audace per il bavero, e, togliendolo alle sue gioie, lo ricondusse con la forza agli inferi, dove il macigno era già pronto.

Si è già capito che Sisifo è l'eroe assurdo, tanto per le sue passioni che per il suo tormento. Il disprezzo per gli dei, l'odio contro la morte e la passione per la vita, gli hanno procurato l'indicibile supplizio, in cui tutto l'essere si adopra per nulla condurre a termine, il prezzo che bisogna pagare per le passioni della terra. Nulla ci è detto su Sisifo all'inferno. I miti sono fatti perché l'immaginazione li animi. In quanto a quello di cui si tratta, vi si vede soltanto lo sforzo di un corpo teso nel sollevare l'enorme pietra, farla rotolare e aiutarla a salire una china cento volte ricominciata; si vede il volto contratto, la gota appiccicata contro la pietra, il soccorso portato da una spalla, che riceve il peso della massa coperta di creta, da un piede che la rincalza, la ripresa fatta a forza di braccia, la sicurezza tutta umana di due mani piene di terra. Al termine estremo di questo lungo sforzo, la cui misura è data dallo spazio senza cielo e dal tempo senza profondità, la meta è raggiunta. Sisifo guarda, allora, la pietra precipitare, in alcuni istanti, in quel mondo inferiore, da cui bisognerà farla risalire verso la sommità. Egli ridiscende al piano.

É durante questo ritorno che Sisifo mi interessa. Un volto che patisce tanto vicino alla pietra, è già pietra esso stesso! Vedo quell'uomo ridiscendere con passo pesante, ma uguale, verso il tormento, del quale non conoscerà la fine. Quest'ora, che è come un respiro, e che ricorre con la stessa sicurezza della sua sciagura, quest'ora è quella della coscienza. In ciascun istante, durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino; è più forte del suo macigno.
Se questo mito è tragico, è perché il suo eroe è cosciente. In che consisterebbe, infatti, la pena, se, ad ogni passo, fosse sostenuto dalla speranza di riuscire? L'operaio d'oggi si affatica, ogni giorno della vita, dietro lo stesso lavoro, e il suo destino non è tragico che nei rari momenti in cui egli diviene cosciente. Sisifo, proletario degli dei, impotente e ribelle, conosce tutta l'estensione della sua miserevole condizione: è a questa che pensa durante la discesa. La perspicacia, che doveva costituire il suo tormento, consuma, nello stesso istante, la sua vittoria. Non esiste destino che non possa essere superato dall’uomo.
Se codesta discesa si fa, certi giorni, nel dolore, può farsi anche nella gioia. Questa parola non è esagerata. Immagino ancora Sisifo che ritorna verso il suo macigno e, all'inizio, il dolore è in lui. Quando le immagini della terra sono troppo attaccate al ricordo, quando il richiamo della felicità si fa troppo incalzante, capita che nasca nel cuore dell'uomo la tristezza: è la vittoria della pietra, è la pietra stessa. L'immenso cordoglio è troppo pesante da portare. Sono le nostre notti di Getsemani. Ma le verità schiaccianti soccombono per il fatto che vengono conosciute. Così Edipo obbedisce dapprima al destino, senza saperlo. Dal momento in cui lo sa, ha inizio la sua tragedia, ma, nello stesso istante, cieco e disperato, egli capisce che il solo legame che lo tiene avvinto al mondo è la fresca mano di una giovinetta. Una sentenza immane risuona allora: « Nonostante tutte le prove, la mia tarda età e la grandezza dall'anima mia mi fanno giudicare che tutto sia bene". L'Edipo di Sofocle, come Kirillov di Dostoevskij, esprime così la formula della vittoria assurda. La saggezza antica si ricollega all'eroismo moderno.

Non si scopre l'assurdo senza esser tentati di scrivere un manuale della felicità. E come! Per vie così anguste? Ma vi è soltanto un mondo. La felicità e l'assurdo sono figli della stessa terra e sono inseparabili. L'errore starebbe nel dire che la felicità nasce per forza dalla scoperta assurda. Può anche succedere che il sentimento dell'assurdo nasca dalla felicità. «Io reputo che tutto sia bene» dice Edipo e le sue parole sono sacre e risuonano nell'universo selvaggio e limitato dell'uomo, e insegnano che tutto non è e non è stato esaurito, scacciano da questo mondo un dio che vi era entrato con l'insoddisfazione e il gusto dei dolori inutili. Esse fanno del destino una questione di uomini, che deve essere regolata fra uomini.
Tutta la silenziosa gioia di Sisifo sta in questo. Il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua. Parimenti, l'uomo assurdo,- quando contempla il suo tormento, fa tacere tutti gli idoli. Nell'universo improvvisamente restituito al silenzio, si alzano le mille lievi voci attonite della terra. Richiami incoscienti e segreti, inviti di tutti i volti sono il necessario rovescio e il prezzo della vittoria. Non v'è sole senza ombra, e bisogna conoscere la notte. Se l'uomo assurdo dice di sì, il suo sforzo non avrà più tregua. Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n'è soltanto uno, che l'uomo giudica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere il padrone dei propri giorni. In questo sottile momento, in cui l'uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. Così, persuaso dell'origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora.
Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.

I PINK FLOYD hanno dedicato a Sisifo un concerto 
http://www.youtube.com/watch?v=61X3dQ2-nwc